Che cos’è la radicalizzazione
In tutta plausibilità si tratta di un fenomeno con il quale dovremo comunque fare i conti, anche e soprattutto nei tempi a venire. Per alcuni aspetti non è in sé una novità assoluta ma costituisce senz’altro, nelle sue manifestazioni più peculiari, una specificità dei tempi correnti. Già si è parlato, su questa newsletter, del radicalismo islamista. Ripetutamente si è tornati su un fenomeno che ha i tratti dell’epocalità, poiché è un soggetto che occupa uno spazio non solo politico ma anche sociale, culturale e, infine, economico, di grande rilevanza. Parallelamente al radicalismo, come insieme di organizzazioni, gruppi e individui, tra di loro coordinati oppure in conflitto, sempre più spesso si parla anche di radicalizzazione. Si tratta di una espressione, che sta entrando non solo nel linguaggio delle scienze sociali ma anche in quello di senso comune, con la quale si connota il percorso attraverso cui un individuo o un gruppo adottano una forma di azione violenta, direttamente legata a una ideologia estremista a contenuto politico, sociale o religioso. L’obiettivo di tale modo di agire è il contestare a l’ordine stabilito sul piano politico, sociale o culturale. Fin qui, si potrà obiettare, nulla di inedito o di sorprendente. Il rimando al terrorismo, che in Europa ha lasciato una traccia pesante, soprattutto in Italia, Germania e Francia, è pressoché immediato. Qualcuno, però un po’ incautamente, potrebbe quasi pensare di avere a che fare con un film già visto. In realtà le cose non stanno in questi termini. Meglio, quindi, entrare nello specifico della questione, poiché lo scenario occupato dal radicalismo islamista e, in immediato riflesso, dalla radicalizzazione di alcuni segmenti non solo delle società musulmane ma anche a maggioranza non islamica, interviene in un contesto storico e ha una natura distinta dai terrorismi in età industriale. Se non altro perché il jihadismo è un complesso di elementi che si fortifica dei processi di erosione delle sovranità nazionali e delle trasformazione degli spazi indotti dalla globalizzazione. Ma avremo ancora modo di tornare su questo aspetto, più avanti. Alcune cose vanno invece chiarite a priori. Il primo punto è che si ha a che fare con un percorso di radicalizzazione ogniqualvolta all’unione tra azione violenta, lesiva della dignità e dell’esistenza altrui (ma in molti casi anche di quella propria, quando si muore uccidendo), si coniughi una ideologia totalizzante così come, nel medesimo tempo, il convincimento, per chi ne sposa la “causa”, che ricorrendo alla violenza si compia un atto non di sopraffazione bensì di giustizia riparativa. Il mondo va male, sembrano dire costoro, è per raddrizzarne il corso degli eventi bisogna intervenire usando la forza. A ciò ci si sente abilitati in nome di una sistema di valori inderogabile e non negoziabile. Qualcosa di totale. Per capire il radicalismo islamista bisogna intendere quale sia il suo fuoco, ovvero cosa accada nella testa di chi si consegna consensualmente ad esso. Un elemento che traspare da subito è il bisogno di affermare se stessi, investendo su di una “causa” totale, ossia in grado di costituire qualcosa che dà il senso di valorizzare, moralmente e civilmente, chi per essa intende sacrificarsi. Se nell’opinione di ognuno di noi queste condotte sono il segno di una depravazione ideologica ed etica, per chi le accetta il significato è esattamente opposto, completamento ribaltato: finalmente c’è una ragione, non tanto per vivere, ma per fare morire (ed eventualmente per immolarsi). Si tratta di un fenomeno diverso dalla criminalità poiché l’utile, in questo caso, non è il beneficio materiale (il bottino del ladrocinio) bensì il risarcimento simbolico (la convinzione che facendo del male a terzi si compia del bene nel nome di chi e per chi si afferma di agire). Anche per questa ragione i processi di radicalizzazione non sono riconducibili ad un approccio meramente securitario: non si combattono esclusivamente con il pur necessario ricorso alla repressione giudiziaria e delle polizie, rinviando semmai, ancora una volta, alle grandi questioni di fondo della coesione nelle nostre società così come della formazione delle identità individuali e collettive in età di grandi trasformazioni. Non a caso, quindi, l’idea di radicalizzazione presenta affinità con quella di terrorismo ma se ne differenzia per il fatto che si focalizza sugli attori, sulle loro motivazioni, sulla dimensione soggettiva delle loro azioni in rapporto con i tipi di organizzazioni che li inquadrano e li mettono in azione. Soprattutto, parlare di radicalizzazione, oggi, implica lo sforzo di fare chiarezza sul fenomeno del ritorno del religioso in forma tanto totalizzante quanto violenta, attraverso la morte sacralizzata (il “martirio”), senza che per ottenere ciò ci si affidi ad una dimensione puramente teologica, o comunque trascendentale, che ne priverebbe delle ricadute politiche altrimenti molto pronunciate. Nella radicalizzazione c’è scarsa religiosità mentre invece c’è un fortissimo senso della militanza e dell’appartenenza. La religione, usata e soprattutto abusata, è essenzialmente un collante ideologico, non la sostanza di cui è fatta l’azione. Gli elementi problematici sono quindi molteplici: l’inumanità conclamata, esibita e rivendicata, del jihadismo; la sua capacità di tradursi in effetto mediatico; il suo definirsi come il nuovo “nemico interno” alle società in cui opera; l’influenza di internet e del web nel reclutamento ma anche nella autoradicalizzazione, ossia nell’assunzione, per conto proprio, di posizioni sempre più oltranziste che si traducono, infine, in spirito di sopraffazione e in viatico per la distruzione di ciò che è ritenuto indegno di continuare ad esistere. Riguardo all’esposizione mediatica, quello che emerge come tratto dominate nei processi di radicalizzazione è la costruzione dell’“eroe negativo”. Una sorta di figura quasi mitologica, quella del militante che si qualifica per la sua volontà indistruttibile e incorruttibile di compiere le peggiori cose, a partire dal suo stesso suicidio, spesso invece assente nelle precedenti forme di militanza (nel caso, molto diffuso durante l’Ottocento, degli anarchici o, successivamente, dei movimenti guerriglieri, la morte del combattente era sempre possibile, come forma di estremo sacrificio, tuttavia essa non era il fuoco dell’azione militante). Questa dimensione simbolica, che si trasforma in una vera e propria esaltazione della morte, costituisce l’aspetto psico-antropologico più importante delle nuove forme di milizia radicale. Nei processi di radicalizzazione si arriva a cercare la distruzione di sé, come degli “altri”, in quanto forma estrema di riconoscimento della propria personalità. Qualcosa, per intenderci con alcuni paralleli storici – fatte le debite differenze – che sembrano rimandare al “cercare la bella morte” di un certo tipo di fascismo crepuscolare. Non di meno, questa dimensione simbolica del terrorismo islamista (il disprezzo totale per la vita) è fondamentale nella percezione della minaccia incombente da parte della comunità internazionale: nella sua ideologia di fondo, la strategia del jihadismo non mette in discussione un qualche assetto della società occidentale ma il suo stesso prosieguo storico nella sua interezza. I teorici della sopraffazione pigiano molto su questo tasto. Ciò non perché sia concretamente traducibile in un progetto politico fattibile, ovvero con solide possibilità di realizzarsi, ma in ragione del fatto che sanno che l’angoscia e la paura che da tale scenario possono derivare nella controparte sono elemento integrante della strategia del suo annichilimento. L’effetto, al medesimo tempo, di inibizione e di sollecitazione di un’aggressività di ritorno è parte del dispositivo del radicalismo, cercando così di scomporre e scoordinare la reazione politica, riconducendola ad un insieme di atti privi di reale incisività. Fino agli anni Ottanta la radicalizzazione avveniva all’interno di un corpo ideologico ben definito e sostenuto dagli Stati, mentre il sistema delle relazioni internazionali, basate sul bipolarismo, eliminava la “psicologizzazione” dell’atto radicalista. La dimensione psichica, infatti, era racchiusa dentro le dinamiche di gruppo e non costituiva il fattore principale nei processi di proselitismo. Ciò impediva quell’inselvatichimento individuale che si nota oggi, invece, nei cosiddetti “lupi solitari”, ossia quanti entrano nel network radicalista non dopo avere conosciuto una lunga formazione culturale e ideologica, socializzando con gli omologhi, ma attraverso la fidelizzazione sollecitata dal ricorso al web e ai social network. Si tratta di persone di fede musulmana ma anche di non islamici così come di agnostici o non credenti. L’attrazione per l’azione motivata da alte “idealità” ha infatti la meglio su qualsiasi altro ordine di considerazioni. Elemento che ribadisce il come nella radicalizzazione il fattore soggettivo sia un elemento rilevante se non dominante. Peraltro, il soggetto che ha subito un percorso di tale genere entra all’interno di un habitat mentale e morale fortemente settario e fazionalizzato. Non diversamente da quanto avviene con l’adesione a certe sette fondamentaliste, animate da un forte vincolo di solidarietà tra i loro membri basato su una visione apocalittica del mondo, la rottura dei precedenti legami sociali, vuoi con la famiglia, gli amici, e il milieu di riferimento, corre di pari passo con l’esclusivo rispecchiarsi degli uni negli altri. Si tratta di rifiutare il mondo esterno, costruendo una concezione di sé fondata sull’ossessione della “preservazione della purezza”. Peraltro, il gruppo si rinforza dal momento in cui si sente sotto minaccia: i vincoli interni, infatti, si rinsaldano, a detrimento dei rapporti residuali con l’esterno. Ciò facendo, le modalità e le ragioni del ricorso alla violenza diventano maggiormente plausibili con l’incrementare del rapporto settario, inteso al contempo come dimensione identitaria ed esclusivista. Nel caso della radicalizzazione islamista si ha a che fare con la idealizzazione di una “comunità immaginaria d’appartenenza”, la neo-Umma, intesa come un insieme orizzontale di vincoli, di natura organicista, tra omologhi, di contro all’anomia delle società di origine e appartenenza, che siano quelle europee, americana o arabe-musulmane. Nella nuova Umma, rispetto a quella “vecchia”, superata poiché incrostata dalle contaminazioni con la modernizzazione occidentale, composta da apostati, traditori, corrotti e così via, l’individuo che ha conosciuto una sorta di percorso iniziatico, venendo avviato alla “vera conoscenza”, può finalmente dedicarsi al suo compito: la distruzione di ciò da cui proviene e, con esso, di coloro che ne sono parte. Il soggetto radicalizzato si concepisce sempre e comunque in quanto vittima, perlopiù di umiliazioni e dell’insignificanza sociale, come anche umiliato, perché senza diritto al passato e privo di un futuro. In questi senso può essere inteso come una sorta di “Born-again” (un rinato, nel senso profondo di “rigenerato”) che trova nell’islamismo radicale quella religione degli oppressi dove può dare forma al sentimento di ingiustizia profonda di cui si sente destinatario. Il fatto che dietro questa intelaiatura vi sia, molto spesso, una costruzione immaginaria, cambia ben di poco l’ordine della riflessione. Tutte le ideologie, infatti, mischiano idee, sentimenti, risentimenti, idealizzazioni, fantasie e fantasmi, miscelandoli e dando ad ognuno di questi elementi una coerenza altrimenti inesistente. Scalfire questo monolito è impresa non da poco.
Claudio Vercelli
(1. continua)
(9 agosto 2015)