Gli amici sbagliati
Il testo di Michele Steindler apparso su questo notiziario rappresenta abbastanza fedelmente un piccolo torrente di lettere critiche – alcune anche con vene personali – del mio intervento qui di giovedì scorso. Un altro piccolo torrente di persone ha espresso invece parere positivo e sostegno al mio intervento.
Segno evidente che siamo divisi, cosa per lo meno utile ai fini della promozione del dibattito, purché civile. Per rispondere subito all’obiezione di Steindler sul mio uso del plurale maiestatis, posso dire con certezza che non solamente gli amici che mi hanno sostenuto ora, ma milioni di ebrei in Israele e nella Diaspora condividono il punto di vista che ho espresso. Quello che Steindler non ha capito è quale fosse il punto centrale della mia opinione. Mi assumo la piena responsabilità di tale incomprensione e cerco allora di chiarire meglio il mio pensiero.
Io sostengo, appoggiandomi a numerose ricerche recenti, che il popolo ebraico – al di là della sua grande diversità interna e nonostante gli intensi processi di secolarizzazione delle ultime generazioni – è ancora in larga parte un popolo normativo.
I dettati delle norme tradizionali ebraiche costituiscono una base di riferimento quotidiana vincolante per una cospicua minoranza della popolazione ebraica e, cosa non meno importante, rappresentano un punto di riferimento non strettamente vincolante ma comunque forte e significativo per l’identità ebraica di una massa molto maggiore di persone.
Per chiarire il punto, in Israele oltre il 40% della popolazione ebraica si definisce secolare/non religiosa. Di questi, una buona metà digiunano il giorno di Kippur e dunque compiono un importante atto simbolico volontario che dimostra come le radici religiose della società ebraica siano ben più diffuse e profonde rispetto a schematiche classificazioni fra ‘religiosi’ e ‘non religiosi’.
Da questa ben dimostrata realtà culturale sociologica deriva il corollario che l’autorità rabbinica svolge e continua a svolgere un compito fondamentale nell’interpretare, nell’ispirare, nel dirigere le comunità ebraiche sia in Israele sia attraverso il mondo. Una società fortemente normativa come quella ebraica non può sussistere senza la guida, l’aiuto, ma anche la sanzione e il timore dell’autorità rabbinica. Questa funzione essenziale dei Maestri al centro della vita ebraica collettiva non li esenta però da critiche che possono essere mosse da chiunque abbia a cuore la sopravvivenza, la continuità, la qualità, l’integrità, la rilevanza dell’insegnamento dell’ebraismo verso il proprio interno e verso il mondo esterno. Ecco dunque che una costruttiva critica al rabbinato – per lo meno da parte di chi condivida quanto esposto fin qui – non intende contestare la funzione rabbinica in quanto tale ma al contrario intende rafforzarne il prestigio e l’efficacia nell’interesse comune di tutti gli aderenti all’ebraismo. Dove si ritenga di rilevare un’insufficienza da parte della corporazione rabbinica, che chiaramente è molto differenziata al suo interno, emerge la richiesta – anzi la pretesa – di avere qualche cosa di meglio e di più. Il timore è che un rabbinato che non sente bene il polso e non legge bene nella mente della propria comunità possa perdere rilevanza, con conseguenze preoccupanti per il collettivo.
Nei casi concreti dei delitti degli ultimi giorni, a molti è apparso che le voci di condanna emerse chiaramente da parte di larghi settori del rabbinato non fossero sufficientemente assertive.
Proclamare, come è stato fatto dalle personalità più autorevoli, che l’ebraismo ha orrore del sangue e santifica la vita è certamente vero. Ma non è abbastanza. Si sarebbe allora dovuto aggiungere che gli assassini non erano, non potevano essere, ebrei. Oppure si sarebbe dovuto chiarire qual è la sanzione secondo l’ebraismo normativo nei confronti di un ebreo che uccide una persona innocente, sia questo un ebreo o un non ebreo. Fin qui le voci della saggezza ebraica, che sono apparse giuste, ma troppo deboli.
Ma esistono pur sempre anche altre voci rabbiniche che non solamente non condannano fatti come quelli degli ultimi giorni, ma semmai li raccomandano. La crescita di fenomeni di estremismo che hanno una radice e un supporto in scuole rabbiniche, sia pure piccole e marginali, suscita preoccupazione.
Chiariamo qui l’estensione demografica del fenomeno.
Secondo un sondaggio abbastanza recente, circa l’un per cento della popolazione ebraica della Cisgiordania/Giudea e Samaria ha dichiarato che in caso di divergenza con le autorità dello Stato d’Israele, sarebbe disposto a opporsi con tutti i mezzi, incluse le armi. Su una popolazione totale di 350-400.000 persone (esclusi beniteso i quartieri urbani periferici di Gerusalemme edificati dopo il 1967) l’un per cento rappresenta circa 3-4.000 persone. Quantità trascurabile, se vogliamo, oppure l’equivalente di un corpo militare a capo del quale potrebbe stare un generale di brigata, dunque quantità non tanto trascurabile.
Ricordiamo dunque Yigal Amir, l’assassino di Yitzhak Rabin, in un periodo nel quale esperti di halakhah si esercitavano nei riti di pulsa-de-nura al limite della magia; oppure Baruch Goldstein, che ha ammazzato 29 arabi nella Me’aràt Hamakhpelàh, l’edificio delle tombe dei Padri e delle Madri a Hebron, in seguito al quale si è creato un memoriale al nome di Baruch Hagever (gioco di parole sul tema Benedetto sia l’Uomo); oppure coloro i quali hanno scagliato un macigno sulla testa di uno dei comandanti dell’esercito israeliano in Giudea e Samaria; oppure gli incendiari del corpo del ragazzo arabo di Gerusalemme dopo il criminale rapimento e l’assassinio dei tre studenti ebrei nella zone del Gush Etzion; oppure gli incendiari della scuola bilingue a Gerusalemme; oppure gli incendiari della Chiesa della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci sul Lago di Tiberiade; fino all’accoltellamento della giovane donna ebrea alla marcia gay a Gerusalemme. In tutti questi casi vi sono autori noti e rei confessi. Ricordiamo poi le minacce di questi giorni alla vita del Presidente di Israele Rivlin, e ricordiamo anche (sebbene questo ci porterebbe ad ampliare molto il discorso, cosa che non può essere fatta qui) la dichiarazione del deputato alla Knesset Yoguev del partito Hayihud Haleumi che ha proposto di lanciare un bulldozer contro l’edificio della Corte Suprema di Israele.
Nel caso dell’atto incendiario che ha causato la morte di un bambino in un villaggio arabo in prossimità del villaggio ebraico di Izhar, non esiste ancora in questo momento un reo confesso. Una signora israeliana, una cara amica, mi scrive che forse si tratta dell’atto di un provocatore di sinistra o di un palestinese. Io non sono un criminologo ma leggo che le forze di sicurezza israeliane hanno compiuto diversi arresti negli ambienti degli estremisti ebrei.
Michele Steindler afferma di non sapere se Yigal Amir e gli altri assassini abbiano studiato e dove. Si documenti, allora, perché la risposta è facile da reperire. Michele aggunge giustamente che le maggiori yeshivot (ne cita tre: Merkaz Harav, Ponovich, Porat Yosef) non sono coinvolte in questa sequela. In nessun modo ho inteso dire o si può inferire da quanto ho scritto che vi sia un tale coinvolgimento. Contrariamente all’asserzione di Steindler nessuno ha mai voluto colpevolizzare un’intera parte di società israeliana che nulla ha a che spartire con questi barbari assassini. Ma è anche tragicamente vero che nel gioco delle prossimità, delle alleanze, della solidarietà, avviene talvolta che si finisca per condonare ai propri vicini quello che non si ammetterebbe da parte degli altri.
Questa è forse la sfida maggiore per un vero leader spirituale: saper essere severo con i propri seguaci devianti.
Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme
(10 agosto 2015)