Un kibbutznik
Chiedo al giovane kibbutznik della sua esperienza. Per la verità, non è proprio un esponente del Kibbutz: a 25 anni, ricorda perfettamente gli anni della sua infanzia nella comune, la sala da pranzo, le ricorrenze religiose celebrate sul prato vicino al mare, i soldi dello stipendio paterno devoluti alla cassa sociale. E ricorda ovviamente quando, una decina di anni fa, il Kibbutz ha cessato di esistere come istituzione per trasformarsi in un bellissimo villaggio di abitazioni private.
Gli domando se prova nostalgia della condizione precedente. Mi spiega che al momento del salto la sua famiglia era già pronta al tuffo nell’economia di mercato: due stipendi al di fuori della comunità e due automobili di proprietà. Mi racconta che non tutte le famiglie ebbero la stessa capacità di adattamento, e che alcuni furono aiutati a ricollocarsi. Insisto, facendo leva sulla potenza dei ricordi. Niente da fare, l’unica cosa che gli viene in mente è che al Kibbutz adiacente la mensa era più buona e che con gli amici, da adolescenti, facevano a gara a imbucarsi. La casa dove ci troviamo è di sua proprietà, così come quella dei genitori. Può lasciarla in eredità a costo zero ma non può venderla senza pagare le tasse al Demanio. Insomma, per il socialismo del Kibbutz, probabilmente l’unico nella Storia che abbia effettivamente funzionato, nessuna nostalgia, nessun ricordo particolare, più indifferenza che sofferenza. Sono bastati una decina di anni. Sic transit gloria mundi.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas twitter: @tobiazevi
(11 agosto 2015)