Qui Firenze – Il coraggio e la libertà
Anche le insegne della Comunità ebraica fiorentina alle solenni celebrazioni per i 71 anni dalla liberazione della città dal nazifascismo. Apertasi con il rintocco della Martinella, la campana che un tempo chiamava all’adunata i fiorentini, la giornata è proseguita con la deposizione di due corone d’alloro. La prima davanti alla lapide murata di Palazzo Vecchio, la seconda davanti al monumento ai Caduti di tutte le guerre di piazza Unità. Ad intervenire, assieme agli altri leader religiosi, anche il rabbino capo Joseph Levi.
“Celebrare la Liberazione non deve essere soltanto un esercizio rituale: nei fatti dobbiamo rinnovare questi valori” ha affermato il sindaco Dario Nardella intervenendo nel Salone dei Cinquecento, punto d’arrivo del corteo che si è poi snodato per le vie del centro. Nella stessa sede l’intervento dello storico Zeffiro Ciuffoletti. “La città, il coraggio e la libertà”, i temi toccati nella sua riflessione, condivisa dal relatore con i nostri lettori.
La città, il coraggio e la libertà
Commemorare l’anniversario della liberazione di una città come Firenze è una responsabilità più che un onore. Per me, che ho avuto come maestro Carlo Francovich, autore del primo e insuperato lavoro sulla Resistenza a Firenze, è anche un modo per non dimenticare uno studioso e un antifascista a cui la storia e gli ideali della Resistenza erano cari.
Perchè, insieme con il sindaco Nardella, abbiamo scelto un titolo che pone al centro la città?
Un primo motivo, non del tutto esteriore, sta nel fatto che quest’anno è anche l’anniversario di Firenze capitale, a cui ho dedicato un volume per valutare meglio i sindaci e gli amministratori che guidarono in quel frangente la città di Firenze, diventata capitale. Un altro motivo consiste nel fatto che Firenze, nella sua lunga e straordinaria storia, ha conosciuto momenti di grave crisi e momenti di straordinaria ripresa. Ne cito almeno due, fra i più noti: la crisi di metà Trecento, con il crollo delle maggiori consorterie di mercanti banchieri cittadini, dai Bardi ai Peruzzi, che avevano prestato milioni di fiorini d’oro a Edoardo III d’Inghilterra, che mai li restituì. Seguì la fame e la pestilenza, che provocò la perdita di un terzo della popolazione cittadina. Purtuttavia, Firenze si riprese e una nuova generazione di mercanti banchieri, fra cui i Medici, portò la città ai vertici della ricchezza, della scienza e dell’arte, aprendo la via all’Umanesimo e al Rinascimento in tutta Europa. Un secondo momento, fu proprio quello di Firenze capitale, quando la città seppe affrontare una sfida pesante, con un coraggio e una capacità realizzatrice, semplicemente incredibili: in poco più di cinque anni si costruì una nuova città, quella che noi vediamo ancora oggi, senza offendere più di tanto le straordinarie testimonianze architettoniche del passato. Poi Firenze ingoiò, per amor di patria, anche il trasferimento della capitale a Roma, ma la classe dirigente di allora, non rinunciò a completare il nuovo volto urbanistico della città, disegnata dal Poggi. Pagando un prezzo altissimo che, come è noto, portò al fallimento del Comune e alla crisi di una grande istituzione finanziaria cittadina, come la Cassa di Risparmio e i tanti piccoli lavoratori che a essa avevano affidato i loro magri risparmi. Sembrava la fine e il declino della città, con trentamila disoccupati, con fallimenti di imprese e mancanza di lavoro per la folla di artigiani che erano stati gli artefici della costruzione della capitale. Eppure dopo nemmeno un decennio, la città seppe riprendersi, con il coraggio e la vitalità di una collettività cittadina, che dalla sua storia e dalla sua identità, laica e cristiana, signorile e artigiana, seppe trovare la forza di reagire e guardare al futuro, superando, come spesso nei momenti più difficili, persino le sue proverbiali divisioni e contrapposizioni.
Un terzo motivo che giustifica il tema della città deriva dal fatto che Firenze rappresentò, nel processo di liberazione nazionale, qualcosa di esemplare per la tradizione civica dell’Italia delle cento città. Quell’Italia, guarda caso, celebrata proprio a Firenze capitale, nella primavera del 1865, quando fu inaugurata solennemente la statua di Dante in Santa Croce, il tempio delle itale glorie. Proprio quelle che nel medioevo comunale avevano fatto grande Firenze e le altre città della penisola. Di quelle cento città, nel rispetto della loro storia civile e delle loro autonomie comunali, dopo l’unificazione nazionale, Firenze si era voluta proporre come capitale. E cioè la capitale di una nazione non centralista e non statalista, anche se gli esiti del processo unitario andarono per un altro verso, data l’insorgenza legittimista e brigantesca nel Meridione. Fu proprio Piero Calamandrei a intuire il ruolo originale svolto dalla città nella battaglia per la liberazione. Lo scrisse a caldo sul “Ponte” e poi in Uomini e città della resistenza (Laterza, 1955). La partecipazione dei fiorentini alla battaglia per la liberazione della città dalle truppe tedesche in ritirata, mentre ormai incalzavano gli alleati dell’Ottava Armata, fu esemplare. In effetti, al di là di ogni retorica, a Firenze, per la prima volta, le avanguardie del Comitato Toscano di Liberazione, spinsero al combattimento una città che non aveva negato il consenso al regime fascista. Vecchi oppositori con i capelli bianchi, come Gaetano Pieraccini e giovani trascinati dalla volontà e dal coraggio di lottare per un futuro diverso da quello prospettato dal fascismo e finito nella tragedia della guerra fra eserciti e della guerra civile si trovarono uniti nella lotta. Fra questi antifascisti c’erano preti, cittadini, popolani, uomini e donne coraggiose come, per fare un nome, Gilda La Rocca, eroica protagonista dell’attività importantissima di radio Cora, che, grazie agli azionisti, tenne informate le bande partigiane e gli alleati, sui movimenti dei nazifascisti. Lo scopo più immediato era quello di accelerare la fine della guerra e del fascismo, nella convinzione che in quella battaglia, al di là del significato militare, si poteva riflettere l’antica e mai del tutto sopita coscienza civica della città. Mi viene in mente la famiglia Rosselli, che, proprio a Firenze, si era formata nel culto degli ideali del Risorgimento, della giustizia e della libertà, essenza del sacrificio dei tre fratelli. Il maggiore, Aldo, morì nella Grande Guerra, mentre Carlo e Nello si spesero, fino al sacrificio di sé stessi, nella lotta contro il fascismo, in Italia e in Europa, proprio in nome della giustizia e della libertà. Carlo Francovich che del pensiero socialista e liberale di Carlo Rosselli fu interprete e testimone, con la sua Storia della Resistenza a Firenze, volle incentrare il suo lavoro esattamente sulla città, come avevano indicato sia Calamandrei, che Renzo Enriquez Agnoletti, uno degli animatori del Partito d’Azione e del Comitato Toscano di Liberazione. Francovich iniziò la propria ricostruzione dal 1943, anno in cui, fra il 25 luglio e l’8 settembre, gli italiani vissero l’illusione che il fascismo e la guerra fossero finiti. Dimenticarono tutti, persino i fiorentini, ciò che un loro grande concittadino, Machiavelli, aveva scritto cinque secoli prima e cioè che le guerre si sa quando cominciano, ma non quando finiscono e anzi, disse, non finiscono quando ci piacerebbe che finissero. Come ebbe a scrivere all’altro grande fiorentino, Francesco Guicciardini, nella sua vita visse più tempi di guerra che tempi di pace.
A Firenze la Resistenza esprimeva, nel Comitato di Liberazione, una visione politica di radicale rinnovamento dello stato e una spinta all’autogoverno. In effetti, proprio a Firenze si voleva anticipare la liberazione della città, incalzando i tedeschi in ritirata con la lotta armata, ma nello stesso tempo si volevano insediare i poteri di un governo locale, formato dalle personalità espresse dai partiti antifascisti. Non si poteva evitare lo scontro violento di fronte agli eccidi di luglio delle bande fasciste, alla deportazione degli ebrei e degli oppositori, di fronte al tiro dei franchi tiratori e al terrore. Nonostante il ruolo straordinario di un vescovo non succube del regime, come Elia Dalla Costa, che si spese per evitare lo scontro, lo scontro ci fu. Tuttavia, più che l’aspetto militare, si manifestò il consenso intorno al rinnovamento politico che accompagnava la riconquistata libertà e la democrazia. Crudeltà e violenze non mancarono e quello fra il ’43 e il ’44 fu l’anno più terribile della guerra, che investì sempre più direttamente la popolazione civile e la città. Tutto questo quando lo scenario mondiale della guerra si focalizzava sulla Germania, da est come da ovest, mentre il fronte meridionale, quello italiano appunto, ristagnava con i tedeschi attestati sulla linea gotica. Firenze si trovò per mesi nel baricentro dell’Italia divisa, con al Nord i tedeschi e repubblichini e al sud gli alleati che avanzavano e progredivano da Roma verso Firenze, prima di affrontare lo scoglio della linea gotica. Fu proprio allora che Firenze divenne uno spartiacque nazionale. Lo si vide bene quando il Comitato di Liberazione Toscano diede vita al primo caso di controllo e governo dell’amministrazione di Firenze. Prima ancora che le truppe alleate dell’Ottava Armata britannica giungessero a Firenze, con la città tagliata dai ponti minati dai tedeschi, il CTLN nominò Gaetano Pieraccini sindaco di Firenze, con vice-sindaci Mario Fabiani del PC e Adone Zoli della DC. Non c’è tempo di leggere tutto il documento, ma permettetemi di citare almeno un pezzetto della relazione stesa dall’Office of Strategic Service, ossia il servizio di informazioni politico-militari statunitense:
“Quando le armate alleate sono entrate a Firenze, hanno trovato, per la prima volta in una città italiana di grande importanza, un’organizzazione amministrativa quasi perfetta, messa in piedi da forze antifasciste preparate e precise”.
Così agli alleati non restò altro che confermare la giunta di Pieraccini, che si trovò alle prese, da subito, con problemi politici e amministrativi giganteschi. In primo luogo c’era la necessità di ricucire il tessuto sociale della città e il rapporto tra cittadini e istituzioni, un’impresa eccezionale in una città devastata dall’occupazione nazi-fascista e dalla guerra civile strisciante, si pensi ai delitti e alle torture della banda Carità, oppure all’assassinio del filosofo Giovanni Gentile che divise le stesse forze antifasciste, ma infine si pensi alle carenze di generi alimentari, alla distruzione di migliaia di case, di tutti i ponti sull’Arno, tranne Ponte Vecchio, all’affluire di migliaia di sfollati, dato che la linea del fronte rimase per circa otto mesi a solo poche decine di chilometri da Firenze. Il problema era gigantesco e al centro stava la fiducia nella nuova politica e il senso di responsabilità della nuova classe dirigente formatasi nella lotta. Al di là dell’azione armata, che fu importante, ma che va vista sempre in relazione al procedere della guerra e delle truppe alleate, decisiva fu la politica e le scelte politiche. Per salvare la dignità della città e dei suoi abitanti, dopo vent’anni di dittatura occorreva attingere le forze dalla migliore tradizione civica di Firenze. Occorreva attingere da lì il coraggio necessario a dare una risposta adeguata ed efficace alla gigantesca portata dei problemi sociali, economici, materiali, ma anche immateriali. Occorreva rispondere agli enormi problemi della città e a quelli di cittadini stremati e abbrutiti da anni di guerra e di terrore. Questo era il compito alto della politica, compito a cui quegli uomini, al di là del colore politico e dell’età, non si sottrassero.
Oggi dovremo riflettere su questa storia, per capire che la democrazia, come la libertà, si conquistano, ma si affermano e si consolidano solo nella misura in cui la politica riesce a dare risposte ai problemi reali. La non politica, più che l’anti-politica, è la malattia che dobbiamo temere e a cui bisogna reagire con coraggio e responsabilità.
Zeffiro Ciuffoletti
(12 agosto 2015)