Libri – Almansi, il canto riscoperto
“Restituire la voce a chi non ha più voce. Ridare il canto ai diseredati, agli esclusi, agli sconfitti, ai sommersi”.
Questa la missione dello scrittore biellese Emilio Jona (nell’immagine), il cui ultimo libro – “Il celeste scolaro” (ed. Neri Pozza) – continua a far parlare di sé e a raccogliere l’interesse dei protagonisti della cultura italiana. Ultimo in ordine di tempo il germanista Claudio Magris, che gli ha riservato ieri un’ampia recensione sul Corriere della sera.
Dedicata al giovane poeta Federico Almansi, il “celeste scolaro” di Umberto Saba che ispirò alcune delle pagine più alte del Novecento, l’opera era stata anticipata in giugno da Pagine Ebraiche.
Nell’occasione si spiegava come ad emergere dal racconto dello scrittore non fosse solo una vita travagliata ma, in un certo modo, anche l’intero secolo visto dagli occhi degli ebrei italiani: la radice identitaria, l’amore per gli ideali, la cultura, la poesia, la famiglia, l’avventura, l’esclusione, la persecuzione, la Resistenza, la ricostruzione, l’amicizia, la passione, l’amore, la psicanalisi, la psichiatria, la disperazione.
“Le pagine de ‘Il celeste scolaro’ – sottolineava Guido Vitale, direttore della redazione – sono anche un modo di restituire e di rileggere l’opera di Saba”. Jona mette infatti in gioco, assieme alle sue doti di narratore, la sua conoscenza dei fatti e di documenti inediti di enorme interesse. Oltre a una cultura vastissima e a una grande frequentazione dell’opera del poeta triestino.
La poesia ferita del Celeste scolaro
Restituire la voce a chi non ha più voce. Ridare il canto ai diseredati, agli esclusi, agli sconfitti, ai sommersi. Emilio Jona, discendente da una fiera famiglia di ebrei biellesi, veleggia battagliero verso la soglia dei novant’anni e continua a praticare la cultura e la giustizia a modo suo, scrivendo da uomo libero le pagine in cui crede. Con il suo Il celeste scolaro (Neri Pozza) ci dona ora una sorprendente opera letteraria, che si discosta, almeno formalmente, dalle sue antiche passioni per la cultura popolare e per le ardenti battaglie di libertà e di giustizia sociale. A riemergere dal suo racconto, dalla meticolosa e appassionata ricostruzione delle vicende del giovane Federico Almansi (1924-1978), suo quasi coetaneo, amico di gioventù e lontano congiunto, è per molti aspetti l’intero Novecento visto dagli occhi degli ebrei italiani.
In una sola vita travagliata, quella del giovanissimo poeta che fu il “celeste scolaro” di Umberto Saba e così ispirò alcune delle pagine più grandi della letteratura italiana del Novecento, appare un mondo intero. C’è la radice identitaria, l’amore per gli ideali, la cultura, la poesia, la famiglia, l’avventura, l’esclusione, la persecuzione, la Resistenza, la ricostruzione, l’amicizia, la passione, l’amore, la psicanalisi, la psichiatria, la disperazione.
Il racconto di Jona ci porta innanzitutto lì dove l’intera opinione pubblica italiana, nell’aprile del 1953, incontrò Federico e suo padre, Emanuele Almansi, stimato libraio antiquario, già ufficiale dell’esercito regio durante la Grande guerra e perseguitato durante la Shoah. Lui stesso uomo appare con i polsi legati, in quella primavera, di fronte alla Corte d’Assise di Milano, protagonista, dopo aver tentato senza successo di uccidere suo figlio e di suicidarsi, di un caso giudiziario che susciterà enorme scalpore e un primo dibattito sull’eutanasia. L’accusato ammette ogni addebito e chiede di essere condannato, ma lo fa rievocando il fantasma della malattia mentale che aveva devastato la vita di suo nonno e di suo padre morto in manicomio, venato inesorabilmente la sua vita e ora si presentava prepotentemente nella degenerazione della schizofrenia del suo adorato figlio venticinquenne Federico. L’ossessione di un figlio inabile al lavoro e destinato a finire i suoi giorni in un manicomio non riusciva a sopportarla, per questo, disse, sarebbe stato meglio farla finita. Le cose non andarono così e il giovane si salvò e visse ancora a lungo quella vita di stenti e di dolore che il padre aveva profetizzato. Jona ci descrive in pagine di grande sofferenza l’apparizione del ragazzo, ormai già malato, nell’aula di giustizia: “Del giovane dalla bellezza misteriosa e apollinea, dai lunghi capelli e dai luminosi occhi azzurri, che Saba aveva chiamato «occhi di cielo», non era più nulla. L’alta figura incurvata, i capelli rasati, il corpo appesantito e la luce irrimediabilmente spenta negli occhi, Federico si era tramutato in uno di quei fantasmi che popolano l’istituzione manicomiale”.
Il racconto risale ora nel tempo alla fanciullezza e all’adolescenza di Federico e offre contemporaneamente mille frammenti vivi per entrare nella vita di una famiglia ebraica italiana di quegli anni. Dalla difficile scelta di quale atteggiamento assumere nei confronti della demenza di una dittatura che di lì a poco avrebbe trascinato l’Italia nella vergona e nella distruzione, alla miseria delle leggi razziste del 1938, dalla guerra alla minaccia di sterminio, nell’intimità di una famiglia tutta particolare come tutte particolari furono innumerevoli famiglie di ebrei italiani, alla grande storia, alla poesia. L’incontro con Saba, collega libraio di suo padre, e l’amor socratico che ne venne, l’abbozzo di versi timidi ma veri e di romanzi incompiuti che mai vedranno la luce, e l’amicizia, fino a ispirarne profondamente l’opera, con il poeta triestino che fu una delle maggiori voci del Novecento. Infine la malattia, la follia, la sofferenza. Senza mai spegnere l’emozione, Jona raccoglie scrupolosamente i materiali e cerca di restituire per quanto possibile una linearità a un’esistenza troppo grande per scorrere negli stretti argini dei tempi.
Le pagine de Il celeste scolaro non costituiscono però solo un atto di equità, ma anche un modo di restituire e di rileggere l’opera di Saba. Jona mette qui in gioco, assieme alle sue doti di narratore, la sua conoscenza dei fatti e di documenti inediti di enorme interesse, e una cultura vastissima, e una grande frequentazione dell’opera del poeta triestino. E rende giustizia a una vita come una ferita aperta, di cui l’unica consolazione e l’unico riconoscimento fu, infine, dall’estremo oriente all’estremo occidente dell’Italia ebraica, il palpitante dialogo fra Saba e il Celeste scolaro. Il tangibile segno d’amore del più alto canto che ci fu dato intendere.
Guido Vitale, Pagine Ebraiche giugno 2015
(16 agosto 2015)