Derby, passione senza fine
Si sente spesso dire che non ci sia italiano più autentico di un ebreo italiano. E forse è vero. Basti pensare alle antichissime presenze locali di nuclei ebraici e al filo intergenerazionale di memorie che le lega al territorio. Naturalmente, nel paese che conta sessanta milioni di allenatori, e almeno altrettanti tifosi, neanche gli ebrei italiani sfuggono all’implacabile giostra del tifo. Ci abbiamo un po’ giocato sopra, alla partenza di una Serie A che, per il secondo anno consecutivo, conferma la bellezza di cinque derby. È sfida nella sfida. È calcio. Ma è anche identità, passione, goliardia. Buon campionato a tutti!
“Guarda, della Juve a me importa un fico secco. Siete succubi della maggioranza silenziosa che governa questa città. Io sto con il Toro”. Claudio Vercelli, storico, fa risalire a questo scontro adolescenziale tra padre e figlio la propria fede granata. Uno scontro in realtà all’acqua di rose perché, racconta, le sue parole furono accolte con un sbadiglio. Ma tant’è. Il più grande di sempre? “Valentino Mazzola”. Mentre oggi il più apprezzato è Peres. “Ma non per la qualità, bensì per il cognome” sottolinea da navigato esperto di politica mediorientale. E i cugini bianconeri? “Le uniche zebre che valgano la pena d’essere ricordate – dice Vercelli – sono quelle attraversate dai Beatles ad Abbey Road”.
“Ho avuto un percorso strano. Da bambino palpitavo infatti per Inter, Lazio e persino per il Brasile. La Juve mi ha folgorato in seconda elementare”. Ex presidente Ugei, Simone Disegni è stato un po’ un ponte: il primo tifoso in famiglia. È supporter bianconero con tutti i crismi, ma non nutre un particolare risentimento verso il Toro. “Nella vita – dice – ho sempre avuto simpatia per i più deboli. Lo stesso vale per il calcio, non me la sento di infierire”. Giocatore simbolo della ‘juventinità’, per Disegni, è l’ex Pallone d’oro Nedved (oggi dirigente del club). “L’ho amato perché dava l’anima, rincorrendo palloni fino all’ultimo”. E adesso? “Pogba, anche se ogni tanto gigioneggia un po’ troppo”.
“Ho avuto un grande privilegio nella vita: quello di veder giocare Totti quando ancora non era Totti. Si vedeva che era un predestinato, anche a 13 anni”. Daniele Regard, ex presidente Ugei, ha sviluppato un vero e proprio culto per il capitano. Suo l’unico poster appeso in camera in gioventù. E ancora oggi, da adulto, il “pupone” non smette di regalargli brividi. “Il numero uno, come lui nessuno”, conferma Regard. Che poi aggiunge: “Sono romanista da sempre, nato e cresciuto in una famiglia di solida fede. Della Lazio mi importa poco. La nostra è una bella storia, piena di bandiere. E la loro? Mah, meglio tacere. Li vedo un po’ frustrati, ecco…”.
“Nel nostro mondo si sconta una preclusione ingiustificata nei confronti della Lazio. Basti pensare che due soli ebrei hanno militato in Serie A, ed entrambi con questi colori”. Difende la sua scelta Mauro Di Castro, ex consigliere comunitario e uomo Maccabi a Firenze. “Il mio – spiega – è nato come tifo di protesta: avevo tutti romanisti attorno. Poi si è sempre più radicato”. Chinaglia il calciatore più amato (“forti limiti personali, ma grande generosità”), mentre oggi la preferenza va a Klose: campione sul campo, ma anche di professionalità. Aspettative per la stagione? “Sulla carta la Roma è più forte di noi – dice Mauro – ma certe situazioni non sempre si possono pronosticare”.
È il sogno di ogni tifoso ‘doc’: la propria squadra che riconquista gli onori perduti e al tempo stesso fa sprofondare i rivali a un punto ancora più basso. Marcello Vitale l’ha realizzato 12 anni fa. La stagione del ritorno doriano in Serie A, e della C che accoglieva invece il Genoa dopo due stracittadine perse. “Che spasso, un vero trionfo” ride di gusto. Dipendente comunitario, Vitale è testimone di rivalità accese che da sempre dividono la città (e di conseguenza anche la Comunità). “È derby sempre. Per questo amiamo i giocatori passionali e attaccati alla maglia. Come Flachi, quello cui sono stato più legato. Lo volevano in tanti, lui ha sempre lottato per restare”.
“Chi nasce a Genova è per forza del Grifo. Chi viene da fuori tifa gli Altri. È molto semplice”. Prima regola del tifoso rossoblu: il Doria non esiste, tutt’al più è “altro”. Silvio Sciunnach, consigliere, si dice genoano “dalla pancia”. E in quanto tale spiega di apprezzare tutti quei giocatori, magari non fenomeni, che per i colori hanno sputato sangue. “Faccio un nome un po’ così della passata stagione: Pavoletti. Nessuno gli dava due lire, però si è sempre imposto”. Il più grande resta comunque Signorini, lui sì davvero forte, anche se la sua vita – ricorda Silvio – ha avuto un finale tragico. Messaggio ai cugini? “Iniziamo il campionato con un obiettivo: arrivare davanti agli ‘altri’. Ce la faremo”.
“Milanisti si nasce, è una storia di famiglia. Non potevamo scegliere, è stato giusto così. L’unica cosa giusta da imporre nella vita”. Orgoglio rossonero per Daniele Nahum, ex portavoce della Comunità. Che non ha chiaro un concetto: “Non capisco perché ci si ostini a chiamarlo derby, l’Inter è la squadra di Orio al Serio”. Giocatore del cuore? “Per affetto Maldini, ma il più grande è stato Baresi. Dei contemporanei (o quasi) direi invece Kakà”. Messaggio per i cugini? “Quest’anno mi sembrano più forti e hanno un buon allenatore. Allo stato attuale sono davanti”. Ma occhio ai ribaltoni: “Se prendiamo Ibra, cambia tutto. A quel punto vinciamo lo scudetto”.
“La passione nerazzurra? Merito del nonno Benatoff, interista da sempre nonostante fosse nato in Bulgaria e arrivasse da Israele”. Daniele Cohen, ex assessore alla Cultura, non ha mai avuto dubbi. E sin da piccolo ha scelto “l’unica vera squadra di Milano”. D’altronde, dice, “noi possiamo fregiarci di non essere mai retrocessi, quegli altri invece saranno per sempre Serie B”. Campioni del cuore? Ronaldo, ma solo quello pre-militanza rossonera. E poi menzione d’obbligo per il principe Milito e per capitan Zanetti. Messaggio per i cugini? “Mah, fanno un po’ tenerezza. Cambiano allenatori come nell’epoca del miglior Moratti. Ora hanno pure uno dei ‘nostri’ (Mihajlovic) in panca…”.
“Adesso la favola è realtà concreta. Non tutti però possono dire: io c’ero, dall’inizio. Da quando giocavamo nei campetti delle serie minori e non eravamo nessuno”. Batte il petto Roberto Israel, consigliere UCEI e tifoso del Chievo. L’incredibile cavalcata che avrebbe portato la squadra di un quartiere in Serie A inizia ormai ad essere storia (2002). Dietro però ci sono una serie di passioni ed emozioni che solo il supporter della prima ora potrà cogliere. “Forse non sarà più come un tempo, ma i valori testimoniati da questa compagine sono straordinari”, dice Israel. Che come uomo immagine indica oggi Pellissier. “Non è mai voluto andare via, è una bandiera”.
Era un bambino Alberto Rimini, avvocato, quando il Verona dei miracoli conquistava a sorpresa il suo primo (e unico) scudetto. Era il 1985 e Alberto celebrava come tutti in piazza Bra. “Una festa per tutta Verona – ricorda – io personalmente rimasi quasi sordo per una trombetta”. Oggi le prospettive di classifica sono diverse ma, afferma, il fatto di avere due squadre in Serie A costituisce motivo di vanto e non di scontro. “Qua il derby è una cosa diversa, molto meno esasperato di altrove. Mi sembra un valore da tutelare”. Ogni estate Rimini parte con una convinzione: i cugini non ce la faranno, e saranno relegati tra i cadetti. “Alla fine mi sbaglio sempre. Meglio così”.
Adam Smulevich Pagine Ebraiche settembre 2015
(23 agosto 2015)