L’esilio della decisione

torino vercelliL’estate porta con sé, il più delle volte, l’obbligo di riempire le pagine dei giornali e di fare girare il motore di quella gigantesca “infosfera” (il circuito delle relazioni di scambio continuo tra informazioni di ogni genere e tipo) dentro la quale viviamo, molto spesso inconsapevolmente. La polemica sulle nomine di dirigenti e direttori generali, di origine non italiana, da parte del ministero dei Beni artistici e culturali, in alcune prestigiose sedi parrebbe da ascriversi più all’obbligo di un esercizio campanilistico, in assenza di altre nuove, che non ad altro. Salvo la coda di astiosi e biliosi strascichi che di certo non mancherà di alimentare ancora. Al netto del riconoscimento che la reciprocità, in questo caso, funziona, poiché non pochi italiani sono in posizioni apicali, ossia di vertice, in organismi omologhi all’estero. L’arte esiste se circola; con essa, coloro che ne curano la diffusione, la socializzazione e la valorizzazione. A questo elementare riscontro, che tuttavia non vuole essere liquidatorio, vanno aggiunte un paio di considerazioni, le quali non sono per nulla in contrasto tra di loro. La prima è che la dicotomia antagonistica “nazionale/straniero”, rigenerata, tra gli altri, dal fascismo in funzione di una illusoria autarchia culturale, continua a funzionare, attribuendo al secondo capo della relazione il significato di “espropriazione”. Gli “stranieri” sono per definizione dei nemici, che entrano in Italia solo per portare via qualcosa o per distruggerne le superiori qualità. La paura del “tedesco”, da questo punto di vista, sta riprendendo piede, almeno in alcuni settori della nostra collettività. Il “tedesco” è colui che verrebbe a fare proprio ciò che ci appartiene, in una sorta di riedizione, non guerreggiata, di un terribile film di cui siamo stati protagonisti una settantina di anni fa. Una sorta di immigrazione capovolta, questa volta composta non dai “dannati della terra”, quelli che “non hanno nulla da perdere” (e che quindi si impongono come un’orda barbarica per espugnare i nostri averi, così come per distruggere la nostra “cultura”) ma un razziatore d’élite, che usa la “crisi” per aggiudicarsi, attraverso i rapporti di forza a lui favorevoli, quello che è parte del nostro territorio. Non sussiste, nella coscienza di molti connazionali, una relazione dialettica tra ciò che facciamo in patria (oggi si dice: “a casa nostra”) e quanto viene fatto al di fuori dei propri confini. Ancor di meno, si capisce che ciò che generiamo tra noi ha senso se è fruito dagli “altri”, e viceversa. In una funzione di interscambio continuo senza la quale, invece, il rischio sarebbe quello di deperire nel proprio recinto, consegnandosi ad una illusoria autosufficienza che è, invece, solo un inganno. L’Unione Europea, da questo punto di vista (come – ahinoi – anche da diversi altri) non solo non ha contribuito ad una attenuazione di questo gravissimo equivoco ma rischia addirittura di rigenerare i motivi dell’astio o, comunque, delle diffidenze. Non riusciamo a viverci come parte di uno spazio ampio, illudendoci che, in una età di marcata globalizzazione, le virtù reali e veraci siano solo quelle dei luoghi con i quali ci identifichiamo più per necessità e bisogno che non per convinzione. Anche da ciò il familismo di ritorno (se mai se ne fosse attenuata, nel passato, la carica) e il ripiegamento su un sé domestico tanto fragile quanto ossessivo. Lo sanno bene i populisti di ogni genere e natura che, non a caso, macinano consensi. Se i termini della questione sono questi, tuttavia, il rischio è di essere già stati sconfitti, ovvero espropriati per davvero, poiché chiusi in una Maginot superata oramai da tempo dall’onda lunga dei mutamenti. Il declassamento italiano nella divisione internazionale del lavoro parrebbe inscriversi all’interno di tali logiche, che sono culturali ma anche politiche e sociali. Una seconda considerazione porta, invece, il fuoco su altre dinamiche, collaterali ma non contrapposte. La mobilità spaziale, geografica, fisica ma anche relazionale e professionale che l’integrazione continentale avrebbe dovuto garantire, mettendo letteralmente “in movimento” le collettività e agevolando la costituzione di una società europea fatta di scambi e contaminazioni, si sta rivelando per molti una chimera. Ne abbiamo esempio quotidianamente, a partire dalla sfida lanciataci dall’immigrazione e dall’incapacità di offrire una risposta coerente in chiave continentale. Dietro gli atteggiamenti, non importa quanto provinciali e anacronistici, di chi ha voluto leggere le nomine del ministro Franceschini come una sorta di invasione di alieni, si rivela qualcosa di più del passatismo culturale. C’è semmai la confusa percezione che la mobilità sia un fenomeno che interessa – e quindi premia – solo le élite; comunque coloro che già si trovano, dal punto di vista professionale e relazionale, in una condizione di oggettiva superiorità rispetto alla stragrande maggioranza del mercato del lavoro. Quest’ultimo ancorato – invece – ad una fissità territoriale che sta divenendo una specie di maledizione. Poiché se i territori declinano, diventando marginali nell’economia internazionale, anche le comunità che vi risiedono, cristallizzate in posizioni tanto obbligate quanto perdenti, rischiano il naufragio. Se così le cose dovessero per davvero stare in questi termini, se è questo lo stato d’animo dei molti, esso va allora registrato nella sua problematicità e non da subito rintuzzato come espressione di “arcaismo”. In altre parole: coperte dal vocio ossessivo, dal rumore di fondo e dalla cacofonia rituale delle accuse lanciate nel vuoto (“non passi sul sacro suolo lo straniero”) si celano vere e proprie grida di dolore e urla di paura. Qualcosa che suona come “ci state abbandonando! Mentre voi potete garantirvi posizioni che tutelano i vostri interessi noi siamo nella condizione di non riuscire ad affrontare la nostra quotidianità”. Urla e grida che non possono essere liquidate semplicisticamente, con esortazioni consolatorie, destinate a rivelarsi, all’atto concreto, di nessun peso. Sarebbe buona cosa pensarci, per non lasciare spazio aperto agli impresari politici dell’angoscia. Si ha tuttavia la sensazione, che una disposizione in tal senso sia pressoché assente nella comunità politica. E non solo in essa. Fatto che fa di nuovo pensare al nostro Paese, se mai ce ne fosse ancora bisogno, come di un luogo dove al ripetersi di una quantità inverosimile di parole, gettate nel vuoto, si accompagni il silenzio della decisione. Per meglio dire, il suo esilio.

Claudio Vercelli

(23 agosto 2015)