Ricordare il passato

Sara Valentina Di Palma Yosef Hayim Yerushalmi z.l., Alfredo ed io abbiamo da qualche anno frequenti e accesi dibattiti su un tema che presumo stia molto a cuore a tutti e tre, altrimenti la questione sarebbe già chiusa. Che poi Yerushalmi, purtroppo, ci abbia lasciati da quasi sei anni, e che comunque difficilmente lo avrei potuto incontrare di persona, poco conta. Alfredo invece lo vedo abbastanza spesso al Tempio, e forse proprio per l’affetto che mi unisce alla sua famiglia da anni (i bambini ed io abbiamo sempre preso la Berachah sotto il Tallit suo e del figlio Alessandro) vengo da lui chiamata di sovente a discorrere animatamente e nelle circostanze più svariate, compreso una volta alla fermata dell’autobus, tra la curiosità dei pendolari in attesa, anche perché vuoi il fatto che ahimè Alfredo non sente bene, vuoi che gli animi accesi dalla conversazione innalzavano il nostro tono di voce, non passavamo tanto inosservati.
L’argomento, preso ogni volta da angolature diverse, è quello che Yerushalmi ha affrontato in “Zakhor. Storia e memoria ebraica” (Giuntina 2011), a mio avviso una delle riflessioni più interessanti sulla concezione ebraica della storia e su cosa il Popolo di Israele abbia deciso di ricordare del proprio passato, e come.
Am Israel è il popolo della memoria, non della storia, e gli eventi sono vivi in quanto trasmessi mi dor le dor, di generazione in generazione. Le stesse Luchot HaBrit ci hanno trasmesso le Dieci Parole come attuali non perché profondamente diverse nel contenuto da altri sistemi giuridici dell’epoca, si pensi ad esempio al Codice di Hammurabi (1790-1750 a.e.c. circa), ma perché sono state sempre tramandate di padre in figlio, Av-Ben (ovvero pietra, cioè eternità).
La prima Parola, che risuona prorompente nel mondo pagano della salita di Moshe sul Sinai, è la più innovativa e ci dice non semplicemente che D-o è unico, ma “Anochi Adonai Elohecha, asher hotzeticha mei’eretz Mitzrayim mi’bait avadim”: “Io sono il Signore D-o tuo che ti ha liberato dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi”. Si tratta dunque del D-o di un momento storico determinante, quello della libertà. Il ricordo è dunque fondante, e la stessa liturgia insiste spesso sul ricordo (dal ricordo del Bet HaMikdash a Gerusalemme nella Tefillà di Shachrit, a svariati versi dei salmi tra i quali il potente “Im eshkachech Yerushalayim, Tishkach yemini”, “se ti dimentico Gerusalemme, mi si secchi la mano destra”, Tehillim 137:5).
Yerushalmi si interroga sulla contraddizione in base alla quale il popolo ebraico, così attento al ricordo, abbia escluso storici e storiografia dal compito di trasmettere la memoria degli eventi. Per lo studioso, la risposta consiste nell’inserimento degli eventi passati e ricordati nel rito e nella liturgia, senza che conti la scansione temporale della storia, vista come una linea retta in cui importano solo inizio e fine, la creazione del mondo, gli eventi tramandati dalla Torah ad un capo del filo e l’epoca messianica all’altro capo. E la storiografia, secondo lo storico Yerushalmi, non può essere parte della vita di un popolo che fa della storia un evento sacro e quindi non secolarizzato, se non dopo l’emancipazione ottocentesca che vede minato progressivamente il tradizionalismo religioso. Come essere contemporaneamente ebrei religiosi e storici, mi incalza Alfredo, è una domanda aperta e cui la mia personale, opinabile risposta, è: storica per mestiere razionalmente scelto e scientificamente applicato, ed ebrea per fede e sentire emotivo. L’appartenenza oltre la storia, insomma.

Sara Valentina Di Palma, ricercatrice

(27 agosto 2015)