Ci siamo persi il kibbutz?
Ero molto incuriosita di vedere il mitico padiglione israeliano all’Expo di Milano anche perché tutti i (limitati) contatti che ho avuto con l’agricoltura nel corso della mia vita sono avvenuti in Israele. Difficile, però, per chi ha vissuto l’esperienza del kibbutz riconoscersi in una narrazione che si presenta come la storia di una famiglia proprietaria di un’azienda agricola. Per la verità la dimensione socialista e collettivista non è l’unico aspetto mancante in una presentazione necessariamente sintetica, e lì per lì mi ha anche colpito l’assenza di riferimenti specifici alla cultura ebraica; ma tale assenza è giustificabile perché è corretto che Israele si mostri per quello che è, non uno Stato confessionale ma uno Stato democratico in cui convivono liberamente ebrei, cristiani e musulmani. Del resto l’assenza – o, per lo meno, la presenza molto discreta – di elementi religiosi mi pare comune a quasi tutti i padiglioni, persino a quello iraniano, ed è probabilmente una caratteristica generale dell’Expo voluta dagli organizzatori per evitare tensioni e polemiche. Invece, per quanto in effetti anche gli aspetti politici ed economici legati alla proprietà della terra siano generalmente messi in sordina all’Expo, mi sarei comunque aspettata qualche pur vago riferimento al kibbutz che in fin dei conti è forse l’unica forma di socialismo realizzato in un contesto democratico nella storia dell’umanità. Può darsi che in passato il peso del kibbutz nella storia israeliana sia stato sopravvalutato, ma forse ora si sta esagerando nell’altro senso.
Va detto, comunque, che se queste sono le impressioni che lascia il percorso all’interno del padiglione, la scritta che si legge all’esterno riesce invece a coniugare perfettamente la dimensione ebraica e il tema della giustizia sociale attraverso le parole della Torah (Devarim 24, 19), tratte dalla parashà che leggeremo domani: “Quando mieterai il tuo campo e avrai dimenticato un covone non tornerai indietro a raccoglierlo: rimarrà per il forestiero, l’orfano e la vedova.”
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Nel mio testo di venerdì scorso quando parlavo di rabbini che incoraggiano o difendono la violenza mi riferivo a quelli (che purtroppo esistono) che sostengono i gruppi estremisti e difendono o incoraggiano omicidi, devastazioni di luoghi di culto, ecc. Poiché sono certa che il desiderio di vedere questi personaggi isolati e delegittimati in modo evidente ed inequivocabile è comune a tutti i collaboratori di questa newsletter, non posso che scusarmi con i lettori per la mia sintesi eccessiva che, a quanto pare, ha dato luogo a spiacevoli fraintendimenti.
Anna Segre, insegnante
(28 agosto 2015)