Shanghai, un caffè con la Storia
Non è passata inosservata, a Shanghai, la riapertura di uno storico locale. Il “White Horse Cafè”, da poco inaugurato nella sua nuova veste, ha infatti una forte valenza simbolica: fatto costruire e gestito da una famiglia ebraica di origine tedesca, fu per molti anni il punto di ritrovo per i quasi 20 mila ebrei che furono accolti nella metropoli cinese in fuga dalle persecuzioni nazifasciste.
Aperto nel 1939, il caffè rimase in funzione fino al ’49, anno in cui i proprietari si trasferirono in Australia. Demolito nel 2009 per permettere degli ampliamenti della metropolitana, è stato ricostruito a cento metri dal sito originale, utilizzando i progetti originali e rimanendo fedeli allo stile degli anni ‘40. All’inaugurazione erano presenti oltre trecento personalità tra cui un rappresentante del World Jewish Congress e il pronipote del fondatore.
Il caffè si trova proprio al lato del museo degli ebrei rifugiati di Shanghai, che a sua volta è all’interno della sinagoga Ohel Moshe, l’unica della città. Il quartiere in cui si trovano queste due strutture corrisponde alla zona in cui gli ebrei vivevano e le istituzioni cittadine hanno recentemente fatto domanda perché questi luoghi siano annoverati nel Registro “Memoria del Mondo” dell’Unesco, programma volto a preservare e tutelare patrimoni di vario genere altrimenti destinati all’oblio.
Shanghai a partire dal 1934 è stata un porto sicuro per le migliaia di ebrei in fuga dall’Europa. Dal 1937 poi, con la conquista della città da parte del Giappone, la situazione migliorò ulteriormente perché Shanghai divenne una “città aperta” nella quale era possibile entrare anche senza documenti. Chi aveva problemi con i visti veniva aiutato a passare le frontiere da Ho Feng Shan, console cinese a Vienna, il quale fu più tardi soprannominato lo “Schindler cinese” per il suo contributo.
La comunità era talmente integrata che nel ’39 fondò persino un giornale, lo “Shanghai Jewish Chronicle”. I problemi cominciarono nel 1943 quando, su pressioni della Germania, le autorità giapponesi rinchiusero tutta la popolazione ebraica in una zona ristretta, creando così un vero e proprio ghetto sovrappopolato e in cui le condizioni igienico-sanitarie erano pessime. Nel 1945, dopo la sconfitta del Giappone, i cinesi, che fino ad allora non avevano mai dato il minimo segno di risentimento, anzi avevano mostrato una grande ammirazione per l’operosità della comunità ebraica, cominciarono a mostrare ostilità per gli stranieri che avevano “occupato” il loro territorio. Così la maggior parte della popolazione ebraica se ne andò, chi verso le nazioni di provenienza chi verso il futuro Stato d’Israele. I pochi rimasti resistettero fino al 1949, anno in cui salì al potere il partito comunista.
La storia dell’ebraismo cinese però, non si limita a questo breve periodo. Forse non tutti sanno che la presenza ebraica in Estremo Oriente risale a più di mille anni fa, quando dei mercanti provenienti da Occidente si stabilirono nell’allora capitale Kaifeng creando una piccola ma fiorente comunità che con il tempo si è gradualmente assimilata ma ha mantenuto alcune abitudini. Due nuove ondate arrivarono nel 1900 e nel 1917 a seguito rispettivamente delle persecuzioni zariste e della Rivoluzione Russa. La maggior parte di questi nuovi immigrati si stabilì a Shanghai o nei dintorni.
A partire dagli anni ’80, con la lenta ripresa dei rapporti prima commerciali e militari e infine diplomatici tra Cina e Israele, l’interesse da parte cinese per lo studio sugli ebrei e sull’ebraismo è rifiorito culminando, nel 1988, con la nascita del Centro di Studi Ebraici di Shanghai, il più importante centro cinese dedicato a questo tipo di ricerca accademica.
Manuela Giuili
(1 settembre 2015)