…migrazione

La migrazione epocale a cui stiamo assistendo dall’Europa chiama i governi a un’assunzione di responsabilità a cui non mi pare siano pronti.

Non si tratta di trattare la questione sulla base delle emozioni. Se Facebook e Instagram riproducono le durissime immagini del corpo di un bimbo annegato su una spiaggia – immagini che scatenano le pulsioni giustamente caritatevoli e piene di buoni propositi di decine di migliaia di europei – l’intera questione non può essere trattata sul piano emergenziale. Il tema di fondo è la programmazione e la gestione delle ondate migratorie. Chi governa è chiamato appunto a programmare e gestire, e non solo a rispondere a un’emergenza.  Su questo, l’Europa denuncia tutto i suo ritardo e la sua mancanza di unità.

Ci sono paesi come l’Italia che hanno da sempre (parlo ancora del secolo XIX) trattato la questione delle migrazioni unicamente come un problema di ordine pubblico (un’abitudine che persiste), ed altri come la Francia, ma soprattutto la Germania, che hanno ragionato in prospettiva di sviluppo economico e di conseguenza hanno aperto le porte a migrazioni in maniera programmatica, per sopperire a vuoti di manodopera o per fornire formazione a gruppi umani che in prospettiva, negli anni, dimostreranno riconoscenza e attaccamento a chi li ha aiutati.

La stessa Gran Bretagna dopo un primo tentennamento non ha chiuso le porte, ma ha deciso di andarsi a scegliere i profughi direttamente nei campi del Libano e della Giordania, sempre con lo stesso disegno strategico. Non è un caso che siano in particolare governi conservatori i principali protagonisti politici dell’attuale gestione del problema. Non si muovono per solidarietà, né per pietà: lo fanno – in maniera straordinariamente matura sul piano politico – per calcolo. In Italia, che pure si adopera in maniera encomiabile, le dinamiche sono per ora differenti. Abbiamo una grande eccellenza, il prefetto Mario Morcone, che dal 2006 è a capo di un dipartimento del ministero dell’Interno che porta un nome straordinario e bellissimo: “Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione”. Se fosse possibile assegnare un premio di poesia alle cariche istituzionali, questa meriterebbe la prima posizione. E il suo responsabile dovrebbe a tutti gli effetti essere candidato al premio Nobel per la pace, per lo sforzo di coordinamento immane di cui è stato protagonista negli ultimi anni, che ha portato a salvare tante migliaia di vite umane. Ma basta tutto questo? La mia impressione è che l’Italia e il suo governo non riescano ancora a pensare le migrazioni come un fenomeno da governare e programmare, e continuino a limitare il loro intervento alla gestione di un’emergenza dispendiosa e a volte controproducente. Quel che si chiede veramente è un cambio di cultura politica. Che significa saper immaginare l’Italia fra vent’anni, e disegnare un percorso in cui l’accoglienza e l’integrazione di forze umane nuove (e troppo spesso disperate) non sia vissuta dalle comunità locali come una continua minaccia foriera di paure, ma come un’opportunità di sviluppo. Sono richiesti percorsi legislativi che oggi sono completamente assenti, e affidarci all’Europa non ci aiuterà a risolvere una questione a cui – volenti o nolenti – dobbiamo dare risposte lungimiranti in autonomia.

Gadi Luzzatto Voghera

(11 settembre 2015)