Le responsabilità italiane

Schermata 09-2457282 alle 14.44.29«Odio, amore, sangue – nella vita e nella poesia – si mescolano più che non si creda. Specialmente in epoche, come la nostra, turbate», scriveva Umberto Saba in una delle sue lapidarie Scorciatoie (1946), a proposito della delatrice ebrea romana Celeste Di Porto. Così il poeta coglieva dolorosamente il drammatico intreccio di vita e di morte che aveva attraversato la penisola italiana, segnata nei due anni e mezzo precedenti dalla guerra civile e dalla Shoah. E così ne rievocava le pagine forse più tragiche e oscure: quelle della delazione all’interno della stessa comunità ebraica, esperienza che la stessa Trieste di Saba, ma anche Venezia, Milano, Firenze avevano tristemente conosciuto per l’azione diabolica di Mauro Grini.

La figura di Grini, ebreo triestino che denunciò centinaia di correligionari durante la Shoah, tristemente scolpita nella memoria di molte comunità ebraiche italiane, è ora al centro di una minuziosa e impietosa ricostruzione da parte di Roberto Curci, già giornalista del Piccolo di Trieste (Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista, Il Mulino). Affollano le pagine del libro una manciata di collaborazionisti triestini a rappresentare una tipologia ben più numerosa di quanto non si creda, e alcune decine di vittime ebree per lo più denunciate da Grini, le cui vicissitudini sono rievocate per frammenti. Alcuni tedeschi, alcuni collaborazionisti e le poche vittime superstiti si sarebbero date indirettamente convegno negli anni Settanta al processo sulla Risiera di San Sabba, il campo di concentramento e sterminio: processo che solo in parte contribuì a gettare luce sui crimini nazisti a Trieste e aprì appena qualche spiraglio sul tema della collaborazione italiana alla Shoah.

Hannah Arendt nella Banalità del male (1963) e Primo Levi nei Sommersi e salvati (1986) hanno affrontato in modo diverso, ma ugualmente acuto e dolente, il tema della collaborazione nell’universo moralmente sconvolto dello sterminio, indagando quella che Levi chiamò la «zona grigia», in cui vittime e carnefici si incontrano, le prime giungendo a condividere parte delle responsabilità dei secondi. Casi difficili da giudicare – e persino da rievocare – nell’inferno della caccia all’uomo, della deportazione e dei lager, che gli storici hanno tuttavia iniziato non solo a ricostruire ma anche ad interpretare. Innanzitutto il desiderio di aver salva la vita, poi l’illusione del guadagno, ma anche la vendetta, lo spirito di rivalsa, l’antica inimicizia, fecero da innesco e poi da motore di abominevoli comportamenti, che portarono alla denuncia di conoscenti, vicini di casa, soci d’affari, amici, talora familiari e parenti.

Il racconto di Roberto Curci, costruito come un’indagine investigativa che procede per indizi, ma riesce anche a ricomporre frammenti di storia spesso sconosciuti, è reso tragico non solo dal destino di morte della maggior parte dei suoi protagonisti, ma anche dall’unità di luogo e di azione: oltre alla Risiera, l’indirizzo triestino che dà il titolo al volume, a cui si trovano la sartoria della famiglia Grini, l’abitazione di varie altre famiglie ebree e la libreria di Saba, che la ricerca rivela imparentato con il delatore. Così come è particolarmente concentrata l’unità di tempo del racconto: venti febbrili mesi, di occupazione, guerra civile, deportazioni. Perciò la storia vissuta e narrata corrisponde, grazie a questa unità e condensazione, ai canoni classici della tragedia. Ma al di là degli aspetti formali ed estetici del racconto, indubbiamente incalzante, seppure sempre moralistico e mai empatico – ma per comprendere storicamente l’orrore non è sufficiente la condanna e la presa di distanza: occorrerebbe anche l’empatia e al limite l’identificazione, per quanto ardua – sono certamente gli aspetti e interrogativi storici ed etici che la narrazione tocca e suscita in modo talora lancinante.

Al centro sta la figura di Mauro Grini, nato a Trieste nel 1910, collaboratore occasionale della sartoria del padre, con alle spalle alcuni reati negli anni Trenta, cosicché la stampa antifascista del dopoguerra lo dipingeva come “tarato moralmente e anche fisicamente” già prima delle tragiche vicende: per i suoi trascorsi di razziatore cleptomane (o semplice ladruncolo?) e per una “isteronevrastenia”, che gli risparmiò la leva militare (come ricostruisce Curci su carte d’epoca). Un “vero diavolo o un povero diavolo?”, si chiede dunque l’autore. Certo che il “povero diavolo” assicurò nelle mani dei nazisti, spesso anche attraverso la collaborazione di altri italiani, circa trecento ebrei a Trieste e molti altri fuggiti altrove, pare al prezzo di 7 mila lire l’uno. Quindi con l’evidente scopo di arricchirsi, benché dicesse di voler salvare così la propria famiglia, oltre che se stesso. Ne fecero le spese compagni di classe, vicini di casa, moltissimi conoscenti; secondo alcuni, in realtà, i suoi propri familiari, che Grini avrebbe denunciato. Questi ultimi lavorando come sarti a San Sabba ebbero, forse casualmente, salva la vita; mentre Grini stesso morì, fatto fuori dai propri mandanti quando i suoi servigi non occorrevano più, egli era divenuto uno scomodo ed esoso testimone, e la fine di tutto sembrava ormai certa (ma Curci instilla il dubbio che Grini abbia potuto sopravvivere alla tragedia, magari sotto mentite spoglie e lontano dall’Italia, come molti criminali nazisti).

La ricostruzione di queste vicende ci impone una volta di più, da storici e da cittadini, di riaffermare con vigore – di fronte all’affannosa, celebrativa e a volte deformante ricerca dei Giusti – come le responsabilità dei carnefici nella Shoah furono anche italiane: incluse per esperienze come quella della Risiera di San Sabba, sempre imputate esclusivamente all’occupante tedesco. Ma anche il campo di concentramento, transito e sterminio a Trieste non avrebbe potuto esistere e funzionare senza una consistente partecipazione pratica di collaboratori italiani. L’interpretazione della vicenda di Grini e altri collaboratori, finalmente e giustamente ricostruita nei suoi torbidi e inquietanti dettagli, non può inoltre che farci tornare a riflettere sulle pagine classiche di Arendt e Levi, cioè sullo sconvolgimento morale e umano della Shoah che travolse ogni regola e codice di comportamento. Inducendoci a meditare sul fatto che non solo vittime, ma anche carnefici possiamo divenire tutti noi.

 
Simon Levis Sullam, storico

(16 settembre 2015)