Ancora ponti

Sara Valentina Di Palma Lo so, in tanti e autorevoli hanno scritto ed espresso giudizi sull’opportunità di dedicare la Giornata Europea della Cultura Ebraica appena passata al tema dei ponti. Mi trovo più d’accordo con il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, il cui intervento in merito ho condiviso sul mio profilo Facebook, e con un mio correligionario e co-contradaiolo senese, che alla tavola rotonda in Tempio a Siena ha ricordato come l’unico ponte che il popolo ebraico potesse eventualmente costruire sarebbe stato sullo Yarden, quindi su un confine, e nessuno costruirebbe un ponte su una frontiera.
Ciò detto, di ponti si doveva comunque parlare, e si poteva farlo in tanti modi. Come ha fatto (in parte) la pastora valdese Milena Martinat (e per quanto femminista, scusate ma a dire ‘pastora’ mi vengono brividi di fastidio). Essere ghettizzati nelle valli piemontesi, significa aver conosciuto tutta una serie di ponti diversi: quelli utili a collegare terreni divisi da torrenti montani, distrutti da piene e frane e caparbiamente ricostruiti, ma anche quelli che dividevano il mondo cattolico da quello protestante, in cui o si stava da una parte o dall’altra. Come nel mondo ebraico, erano poi spesso oggetto di incursioni e rapimenti di bambini per condurli nelle case dei catecumeni e darli poi in adozione a benestanti famiglie torinesi. Nei tempi di maggior tolleranza, era possibile al massimo passare i ponti per andare a lavorare dall’altra parte, pur di rientrare entro il tramonto (mi ricorda qualcosa…). I ponti sono diventati ponti di libertà, per i valdesi, solo con lo Statuto Albertino del 1848 (anche questo ci accomuna, anche se per noi la libertà è arrivata un mese e mezzo dopo rispetto ai valdesi, ma dopo secoli di discriminazioni quando non di persecuzioni, questa è un’inezia).
I ponti sono anche delle opzioni, come le vie ferrate di montagna, strette e ripide: sta a noi amarli o meno e decidere se vogliamo attraversarli o tenercene lontani. Ma anche i ponti che collegano e che di solito vengono fatti saltare in guerra per tenere lontani i nemici o creare nuove barriere (e mi vengono in mente, tra i tanti, i ponti fiorentini fatti saltare nell’agosto 1944 dai nazifascisti in ritirata, ma anche lo Stari Most, il vecchio ponte di Mostar distrutto nel novembre 1993 a dividere i cristiani dai musulmani nelle guerre di dissoluzione della Jugoslavia).
E qui la mia condivisione con il discorso della pastora si ferma. Perché a me i ponti parecchio alti provocano un senso di vertigine tale che quando passo dal viadotto di Petriolo sulla superstrada tra Siena e Grosseto, faccio cantare i bambini più forte per non pensare al vento che fa vibrare l’automobile. E i ponti bassi mi lasciano ugualmente perplessa perché li temo deboli, e difatti l’alluvione nel basso senese di due settimane fa mi terrà isolata per chissà quanti mesi, finché il ponte sul torrente Fusola sotto casa non sarà stato ricostruito, e i miei figli non dovranno fare una lunga deviazione e percorrere sessanta chilometri tutti i giorni per raggiungere una scuola che disterebbe quindici minuti…
E non è vero che i ponti umani, quelli metaforici tra le persone, non possano essere distrutti: lo fanno la diffidenza, la maldicenza e la sofferenza. Da un argine, che non è proprio un ponte ma me lo ricorda, il mio carissimo amico Luciano si è fatto scivolare in acqua, e il fiume che doveva unire e trasportare idee e collaborazioni culturali è divenuto angoscia.
Allora preferisco pensare ai ponti di cui ci ha raccontato Rav Gianfranco Di Segni al convegno Le religioni come sistemi educativi. L’ebraismo e i grandi educatori del ‘900 (il quale ho ascoltato con grande interesse, insieme agli altri rabbanim Riccardo Di Segni, Roberto Della Rocca e Benedetto Carucci Viterbi): se c’è un fiume tra la casa di un bambino e la scuola, sarebbe meglio trovare per l’allievo una scuola al di qua del fiume in modo che non debba attraversarlo. Se c’è un ponte, si può portare il bambino oltre il fiume, ma solo se il ponte non è un asse (Talmud Bavli, trattato Baba Batra, foglio 21a).
Forse dunque potrei fidarmi solo dei ponti che sia in grado di ritenere solidi? Dunque avrebbe ragione il perspicace Rebbe della storiella che mi è stata raccontata durante la Giornata Europea della Cultura Ebraica, ricordando la saggia diffidenza degli abitanti dello Shtetlper verso i ponti: se avete paura che non regga, e non sapete a chi farlo attraversare per saggiarne la resistenza, metteteci sopra tutte le suocere del paese. Se regge, bene, e se non regge, non è poi tanto male.

Sara Valentina Di Palma

(17 settembre 2015)