L’esodo e il declino
L’Europa come Unione non esiste più. Non almeno quella pensata e profilata dagli accordi succedutisi dagli anni Ottanta in poi. Sta venendo a mancare ciò che doveva esserne l’elemento basico, i medesimi Stati sovrani. Ovvero, quanto si sta progressivamente dissolvendo è la sovranità con le sue molteplici attribuzioni, a partire dal costituire la capacità di esercitare un potere vincolante all’interno di uno spazio geografico, territoriale e antropico determinato. Ad essa non si sostituisce un governo continentale, plausibilmente basato sulla consensualità, la partecipazione e la responsabilità degli uni nei confronti degli altri, bensì una serie scoordinata e contraddittoria di spinte e controspinte, occasionate da un permanente stato di emergenza, da una persistente fibrillazione senza soluzione. I vertici europei, le riunioni fiume, i simposi e le consultazioni, le conferenze e le infinite mediazioni che ad esse si accompagnano, sembrano sempre più spesso assomigliare a dei grotteschi esercizi di stile, fini a se stessi così come ad alimentare il falso convincimento, condiviso da una burocrazia autocratica, di essere al centro del processo decisionale. Se il perdurare della “crisi economica”, espressione con la quale definiamo e comprendiamo rilevanti aspetti del mutamento degli attuali rapporti geopolitici e sociali, nonché dei soggetti chi vi prendono parte, ha già attivamente concorso al cambiamento di scenario e allo sgretolamento della solidarietà tra partner, l’arrivo, per ondate in successione, di un rilevante numero di migranti, segna un ulteriore passo verso la dissoluzione di quell’ordine che pensavamo invece come destinato ad una lunga e prospera esistenza. Il progetto federalista riposava, nella sua praticabilità, anche e soprattutto su un sistema di relazioni internazionali dove il mutamento continentale si sarebbe dovuto incontrare con la stabilità degli altri attori istituzionali, a partire dal Mediterraneo. Di ciò, a conti fatti, poco o nulla è ad oggi rimasto. La frantumazione degli assetti preesistenti sta rivelando, del pari ad un vaso di Pandora che si scompone, non la liberazione di risorse e di opportunità ma l’affannosa fuga di esseri umani, alla ricerca di un qualche riparo. La crisi siriana e lo svuotamento sistematico di quel paese, con la diaspora della popolazione, ne è il suggello, a fronte di altre aree di crisi, più o meno già esplicitate, destinate comunque ad entrare ancora in scena. Le migrazioni sono da sempre una costante della storia umana. Per più aspetti ne costituiscono la quintessenza. La mobilità è fondamentale quanto la stanzialità nel definire equilibri e, al medesimo tempo, nel determinarne le loro variazioni. Il grado di repentinità segna tuttavia i destini di intere società. Ciò a cui stiamo assistendo non è la fine dell’Europa come insieme di Stati ma la scomparsa del fragile tentativo di dare ad essa qualcosa di più di un occasionale coordinamento. Il quale, peraltro, non riuscirebbe comunque a funzionare se anche già sussistesse. Le scene, pressoché quotidiane, di folle di migranti che pigiano in grande numero alle frontiere, soprattutto quelle mediterranee e balcaniche, fino a spingersi verso il nord del Continente, attraversando più paesi, in un vero e proprio esodo, sono il prodotto della trasformazione dello spazio, della distribuzione delle popolazioni e del modo in cui i poteri si esercitano su di esso. Le reazioni disordinate e disorganizzate delle autorità, molto spesso affidate alla forza se non alla violenza delle polizie nazionali, esprimono allora non solo la mancanza di una strategia comune bensì la tentazione di ricorrere alla via della coazione come unica strada concretamente percorribile. In questo modo di agire, al di là della deprecabilità stessa del fatto in sé, c’è il suggello dell’impotenza politica e del più completo stallo progettuale. L’Europa unita doveva essere l’esatto opposto. Se è vero che ciò a cui stiamo assistendo non può essere affrontato e risolto con il ricorso alle vie abituali allora la mancanza di una strategia comune si fa politicamente ancora più delittuosa. Senz’altro foriera di ulteriori disastri. A ciò si affianca l’oramai stanchissimo rituale dell’interpretazioni dei fatti attraverso il ricorso ad un apparato di idee e pensieri che andrebbero per davvero rottamati una volta per sempre. I due poli intorno ai quali ancora continua a ruotare maniacalmente la “discussione” pubblica, come se ci fosse poi molto di cui discutere e tanto spazio (e tempo) in cui agire, rimandano a categorie sospese tra la radicalità del rifiuto integrale e l’esaltazione dell’accoglienza totale. Ma ciò che processi migratori di così ampio respiro mettono a dura prova è proprio il rinviare alla lettura della loro novità – tale nella misura in cui sono sempre diversi tra di loro, pur ripetendosi nell’inesorabilità dei gesti e dei comportamenti che si accompagnano – come anche prodotto di una volontà che possa accordarsi oppure rifiutarsi nel momento in cui essi si manifestano. Cosa si può opporre a gigantesche coorti di persone che letteralmente stanno transitando da un continente all’altro? In queste settimane abbiamo assistito ad una girandola di affermazioni e di prese di posizione, molto spesso, le une e le altre, velocemente smentite nei giorni successivi alla loro manifestazione: così con l’iniziale rifiuto di Cameron in Inghilterra; l’apertura di Merkel in Germania; le reazioni, spesso brutali, ai confini dei paesi dell’Europa centrale, seguite da parziali ammende e poi, di nuovo, da secche dimostrazioni di forza. Certi fatti collettivi, peraltro, sono il risultato non di un calcolo e, men che meno, di un disegno preordinato bensì della dialettica tra spinte e controspinte che nasce, alimentandolo, dal mutamento storico. L’occasionalità si incontra e si allea allora con la ricerca collettiva di soluzioni che, inevitabilmente, concorrono ad incrementare il disordine sistemico. Non è la fine del mondo ma è senz’altro la fine di questo mondo, come già abbiamo avuto occasione di osservare. Per meglio dire, del modo in cui l’abbiamo pensato fino ad oggi. Non siamo pronti a fare fronte alle sollecitazioni del mutamento, rintanandoci nella falsa sicurezza che, in fondo, non ci interpellerà direttamente. Più che una riedizione del 1989 sembra che si sia avviato qualcosa di simile al 1789, un processo di lungo periodo, non solo di natura politica ma anche e soprattutto sociale, culturale e, infine, demografica. Tempo una generazione e tutto sarà completamente diverso da come ancora ce lo immaginiamo. E di immaginazione sembriamo averne veramente poca.
Claudio Vercelli
(20 settembre 2015)