Kippur…
Le preghiere dei dieci giorni penitenziali culminanti nel Kippùr si aprono, alla sera di Rosh Hashanà, con quella suggestiva poesia in cui si ripete l’augurio “…che finisca il vecchio anno con le sue maledizioni… e che inizi il nuovo con le sue benedizioni…”.
Come si può affermare che l’anno trascorso sia stato caratterizzato solo da maledizioni e da sciagure e non abbia avuto anche momenti felici? È noto che la Tradizione ebraica ha sempre valorizzato il passato mostrando una ferma volontà di non abbandonare nel nulla le tracce di ciò che è già trascorso. Il passato, anche quello più scomodo, non va né rimosso, né affossato in modo estremo e radicale. Di tutte le esperienze, anche quelle conclusasi sciaguratamente, dovremmo preservare gli aspetti positivi che questi vissuti ci hanno ingenerato.
In verità la radice della parola “kelalà”, “maledizione”, va ricercata nell’etimo “kal” , che nella lingua ebraica indica la faciloneria e la superficialità. La maledizione da archiviare del recente passato accidentato potrebbe allora riferirsi proprio a quel sentimento di rincrescimento per non aver dato il giusto peso e valore a tutto ciò che abbiamo, viceversa, giudicato con leggerezza e superficialità. Il Rebbe di Kotzk spiegava in questo modo il divieto di rubare. Non rubare a te stesso la possibilità di essere te stesso.
Ci sono occasioni perse, per leggerezza e per impeto, che equivalgono a un furto a noi stessi e che ci ingenerano quel penoso e inquietante senso di bruciore interiore per non aver detto o fatto qualcosa al momento opportuno e nel prendere atto dei danni che abbiamo procurato a noi stessi, alla nostra dignità e a quella di tutte le persone coinvolte. Ma è proprio da questo rincrescimento, “charatà”, caratterizzato da consapevolezza e vergogna, che si può tentare di mettere fine alla discesa, per recuperare le nostre mancanze e per provare a non rinunciare più a nessuna occasione di bene.
Buon Kippùr e Gmar Chatimà Tovà
Roberto Della Rocca, rabbino
(22 settembre 2015)