Yom Kippur 5776 “Siamo un modello di convivenza da esportare ma dobbiamo lavorare di più sulla solidarietà”
Il rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni ha pronunciato nell’ora di Nei’là di questo Kippur 5776, nel Tempio maggiore della Capitale, le seguenti parole:
Reuven Rivlin, il presidente dello Stato d’Israele che pochi giorni fa era con noi al Tempio Maggiore, ha fatto tre mesi fa un discorso molto importante a Herzlya. Ha spiegato come la società israeliana sia ora composta, anzi divisa, da quattro gruppi principali; i cittadini arabi da una parte, e per quanto riguarda gli ebrei, in altri tre gruppi: i cosiddetti laici, i religiosi sionisti e i charedìm, quelli che i media definiscono impropriamente gli “ultra ortodossi”. Questi quattro gruppi, “tribù” le ha chiamate Rivlin, vivono vite separate, comunicano nel loro ambito usando media differenti, vivono in città e quartieri distinti, solo in parte fanno il servizio militare, ma l’elemento fondante della separazione è il percorso scolastico, essendoci quattro gruppi distinti di sistemi scolastici. La domanda che pone Rivlin è come realizzare l’unità nazionale nel rispetto delle differenze. Ciò che propone a tutti è prima di tutto di non aver paura che un progetto unico di convivenza possa mettere in pericolo i propri valori, bisogna poi assumere responsabilità, garantire equità ed eguaglianza e lavorare insieme per la creazione di un “nuovo ordine israeliano”. Questi sono problemi che interessano la società israeliana con tutte le sue particolarità, ma è interessante ribaltare l’analisi sull’ebraismo italiano e sulla nostra comunità in particolare. Siamo divisi anche noi in tribù? È notevole che la principale divisione tra ebrei oggi in Israele non sia nell’origine (Ashkenazita, Sefardita ecc.), la ricchezza o l’orientamento politico o quant’altro, divisioni che pure esistono e sono profonde, ma tra diversi modi e intensità di vivere il rapporto con l’ebraismo e la tradizione religiosa. Qui che succede? Lo vediamo in questo momento. Tra pochi minuti come ogni anno le Sinagoghe saranno stracolme e si affacceranno persone, sempre benvenute, che non sono certo frequentatrici abituali delle riunioni di preghiera. Quindi esistono delle diverse concezioni, che portano a scelte di vita molto differenti. La religione ci unisce ma ci divide anche. Nessuno è uguale all’altro nel modo in cui si rapporta alla religione e si può andare dalla massima attenzione ai precetti alla massima trascuratezza, dalla negazione alla massima fede, in tutte le combinazioni e sfumature possibili. Confrontati con il modello israeliano, qui avremmo una minima presenza di “charedim” e un pubblico distribuito sugli altri due modelli. Ma attenzione: la società israeliana porta a approfondire certe differenze, a radicalizzare i contrasti, da noi è tutto molto più sfumato, e il passaggio da un modello all’altro è graduale, non c’è esclusività, abbiamo un’unica scuola per tutti, diversi mezzi di informazione condivisi, c’è spazio per ogni tendenza anche se le discussioni non mancano. La lezione che si impara da questa situazione è che qui esiste comunque un senso di identità e di appartenenza, di storia e di destino comune e che la diversa intensità con cui è vissuto il rapporto con la tradizione non è stata finora elemento disgregante e di separazione netta. Forse, anzi certamente, abbiamo un modello di convivenza da esportare. Ma perché tutto questo abbia senso non ci si può fermare. Prima di tutto nell’impegno alla solidarietà, che deve crescere; sappiamo delle difficoltà economiche che colpiscono e spesso travolgono la nostra comunità, ma non c’è solo questo, c’è disagio profondo che richiede attenzione e ascolto. Deve cambiare il nostro rapporto con gli altri. Se le discussioni sono necessarie e vitali, la mancanza di rispetto nei confronti del prossimo è devastante e i danni che possiamo compiere con le nostre parole, o gli interventi sui social networks sono gravi e moltiplicati. Prima di parlare e fare guerra, di distruggere l’avversario, pensiamo anche ai danni collaterali su noi stessi e la nostra dignità e sugli innocenti che vengono coinvolti.
Non bisogna essere grandi politologi per capire che tutto quanto intorno a noi sta cambiando, che non ci sono più le sicurezze economiche tradizionali e che le grandi e inarrestabili migrazioni ridisegneranno la composizione della nostra società e con questa il nostro spazio e la nostra forza. Dobbiamo essere preparati come singoli, famiglie e collettività a tutto questo; e diventa essenziale riscoprire e investire nell’impegno ebraico, nel rispetto delle nostre tradizioni che significa anche rispetto di noi stessi; la nostra vera forza che ci fa rispettare dagli altri è il modello di fedeltà e la coerenza, il resto è folklore, che dura poco, o antisemitismo velato. La base della comunità è nel dare e nel ricevere, un dare che non rende poveri, e che ti fa ricevere.
Scrive rav Steinsaltz: “Con tutte le differenze e le barriere che ci possono esistere tra persona e persona, tra anima ed anima, esiste nelle anime di Israele unità e condivisione e in virtù di questo si può dare e ricevere anche le cose che sono più nascoste all’interno di noi. Dobbiamo provare a ricevere uno dall’altro i livelli superiori e i le maggiori sensibilità per aiutare ognuno a trovare la sua strade verso il Creatore”.
I Maestri dicono: “Il Signore benedetto disse a Israele: Apritemi un varco di teshuvà come la punta di un ago e Io vi aprirò delle porte in cui ci si potrà passare con i carri” (Shir haShirìm Rabbà 5:2). L’ago è citato non solo perché è sottile, ma perché passa da parte a parte. Il cambiamento non deve essere enorme, basta che sia minimo, purché ci sia. E aprirà tutte le porte. È quello a cui dobbiamo pensare, se non l’abbiamo ancora fatto, in questi minuti solenni che ci separano dal suono dello shofàr. Abbiamo in mano gli strumenti per fronteggiare insieme le crisi, basta che ce ne rendiamo conto.
Può succedere che tra poco il rumore della folla copra le nostre preghiere. Vorrei raccomandare – forse è mission impossible – partecipazione e attenzione. Se non altro perché queste preghiere, che abbiamo davanti in traduzione italiana esprimono meglio di ogni altra cosa le nostre speranze. Per fare un esempio traduco qualche strofa dall’ El norà che aprirà tra pochi minuti la preghierà di Ne‘ilà: “Noi che siamo chiamati popolo poco numeroso, alziamo gli occhi verso di Te… Cancella le colpe, liberaci dalle maledizioni e firma un futuro di gloria e di gioia… Abbi pietà di noi e fai giustizia di ogni oppressore e nemico… Che sia un anno di grazia, e fai tornare il gregge nella santa città… Possiate meritare molti anni, figli con i padri, con gioia ed esultanza…”.
חתימה טובה תזכו לשנים רבות
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma