Levi oltre Levi
Dinanzi alla nuova fatica letteraria di Marco Belpoliti, dedicata a Primo Levi. Di fronte e di profilo (Guanda, Milano 2015), va detto subito che il volume offerto al lettore potrebbe in qualche misura inibirlo. Sono centinaia di pagine che si impongono come una ripida e rocciosa montagna agli occhi dello scalatore, magari non troppo abituato alle salite impervie. Non di meno, al recensore, che poi altri non è se non un lettore professionale, rendere appieno il senso dell’opera altrui risulta disagevole. Il libro di Belpoliti si presenta infatti come una sfida. Rimandando ad una dialettica ancora aperta tra biografo e biografato. Settecentotrenta pagine, che analizzano in tutto e per tutto il Levi letterato: scrittore di prosa e di poesia, saggista, notista prima ancora che testimone. In realtà il libro aspira senz’altro ad essere qualcosa che si avvicina ad un ipertesto che, come tale, può essere scomposto e ricomposto a piacimento. L’organizzazione interna dei materiali è tale da rendere possibile una pluralità di approcci e, quindi, di fruizioni. Si può partire dalla prima pagina e andare in progressione, scegliere i capitoli di interesse selezionandoli in base a criteri del tutto soggettivi, affrontare da subito le parole chiave più impegnative lasciando tutto il resto ad un “dopo” (oppure ad un mai), arzigogolare, navigare, accelerare o rallentare tra la miriade di sollecitazioni, interpretazioni, suggestioni e quant’altro. Più che un libro sembra una costruzione fatta di mattoncini, come il famosissimo gioco della Lego, dove alla preesistenza di una razionalità intrinseca al gioco medesimo (grazie alla quale si ottengono delle costruzioni che riproducono in scala aspetti della realtà) si può aggiungere, se non sostituire, un percorso di ragionevole intersecazione e di calibrata commistione dei materiali disponibili. Il libro è stato sicuramente pensato in questi termini. Quanto meno, dà tale impressione. Comunque, così si fa fruire. Il rimando alla chimica, dove le molecole sono parti fondamentali di un tutto, non è quindi solo un debito nei confronti della professione di Levi ma un metodo che Belpoliti fa proprio, scomponendo e ricomponendo il biografato secondo configurazioni diverse, articolate nel corso della sua esistenza e della formazione del corpo letterario di cui è autore. Non a caso, infatti, fondamentale è il Levi letterato prima ancora che il testimone. Ruolo e figura, quest’ultima, di cui è invece divenuto nell’immaginario collettivo, insieme a Elie Wiesel, il prototipo universale. Sia pure con notevoli differenze rispetto al secondo, quest’ultimo eletto a figura quasi cristologica, mentre il primo ha per sempre consegnato la sua memoria ad una asciutta fisionomia di interprete del Novecento. Quanto tale esercizio e funzione gli risultassero tuttavia vincolanti, alla resa dei conti, è in parte fatto risaputo ma non in misura sufficientemente diffusa. A tale riguardo, il lavoro di Belpoliti si concentra sulla complessa intelaiatura letteraria che ha connotato l’intera esistenza intellettuale dell’autore torinese, cercando in qualche modo di svincolarlo da un approccio unilaterale, che altrimenti lo condannerebbe definitivamente ad un ruolo pressoché iconico. Non a caso lo scrittore aveva dovuto combattere un conflitto interiore tra l’originaria necessità, che si fece poi imperativo nel corso del tempo, di documentare l’esperienza della deportazione (trasfondendosi in un obbligo di coscienza), stabilendo continui nessi tra esistenza e scrittura e, parimenti, il bisogno di mantenere e coltivare un pudore profondo. Quest’ultimo non era solo un suo tratto caratteriale ma una sorta di difesa ad oltranza dello spazio di umanità dentro il quale proteggere la sua stessa persona dal divenire definitivamente ed esclusivamente, in tutto e per tutto, un personaggio pubblico. Belpoliti, nel suo lungo lavoro, durato almeno trent’anni, di scavo sistematico nell’opera di Levi, riesce a restituirci questa figura della complessità. Lo fa con un esercizio meticoloso e, al medesimo tempo, cristallino, dove i testi dell’autore piemontese sono costantemente messi in tensione e torsione con le fonti documentarie, le vicende del tempo corrente, la mutevole dimensione linguistica, i protagonisti della discussione culturale e politica. In realtà ogni capitolo ha andamenti plurali nonché diacronici, con un forte impatto documentario. Si tratta di un collage di notizie ed informazioni le quali vengono “messe in circuito”, fatte interagire tra di loro e riorganizzate in una sequenza logica. C’è tuttavia dell’altro. Non è meno evidente in Belpoliti, infatti, il bisogno di rendicontare, dopo almeno alcuni decenni di ricorso collettivo alle sue scritture e al suo lascito testimoniale, sia la stratificazione di temi e suggestioni che si sono letteralmente accumulati nel corso del tempo, sia il transito intergenerazionale che d’ora innanzi si porrà per un “buon uso di Primo Levi”. Quest’ultimo tema, che non è un peculiare affanno dell’autore ma che il lettore può desumere dalle riflessioni derivanti dalla lettura del volume, è assai molto meno bizzarro e astratto oppure peregrino di quanto non paia di primo acchito. Poiché l’inflazione di rimandi, nel discorso pubblico, a partire dalla poesia che sta in esergo a “Se questo è un uomo”, recitata da certuni come una sorta di filastrocca, rischia di scioglierne la specificità in un generico richiamo ad un Levi inteso come una sorta di icona morale del tutto scissa dal rapporto con il tempo. Non solo il suo tempo ma anche e soprattutto il nostro. Levi si interroga ripetutamente sulle radici dell’agire umano. L’esperienza del Lager, pur nella sua specificità, gli è funzionale al porsi interrogativi che vanno oltre i recinti di filo spinato. Nell’autore torinese l’urgenza di capire non tanto il Male come categoria dell’amoralità bensì le meccaniche dell’agire umano, soprattutto in rapporto alle asimmetrie di potere, è sempre presente. Fa premio su molto altro. Per questo la sua adozione come cronista della tragedia del Novecento risulta insufficiente. La comprensione della dimensione letteraria non può in alcun modo prescindere dall’essere stato involontario protagonista e diretto testimone di un’immane tragedia. Eppure lo sforzo di Levi è di affrancare la scrittura dal ridursi ad una sorta di obbligo di rendicontazione. Lo fa con passione, tenacia ma anche sofferenza. I testi che ci consegna sono quindi attraversati da questo conflitto persistente. Il quale genera il significato più proprio della sua letteratura. In perenne tensione, e come tale testo aperto a letture generazionali anche differenziate, tra un doversi confrontare con quel che si è stati proprio malgrado, senza cancellare alcunché di ciò, e quanto si potrà essere, d’ora innanzi, attraverso la creazione di vita che è data dalla scrittura medesima, laddove essa libera energie inimmaginabili. Un principio esistenziale che indica il bisogno di vita. La quale non scaturisce dall’acquiescenza alle circostanze date, come neanche da un’inquietudine ingovernabile, fine a sé, ma dalla tensione tra il bisogno di dare dei nomi – e quindi un significato – al passato e la proiezione verso un’ariosa libertà della letteratura che è anche uno dei luoghi dove qualsiasi autore, se tale è per davvero, può trovare una ricomposizione possibile. Il Levi scrittore, infatti, non ci parla di fratture incolmabili ma di transiti possibili. Per questo, oltre che per la sua testimonianza, rimane un ineludibile segnavia della nostra contemporaneità.
Claudio Vercelli
(27 settembre 2015)