Precarietà

Sara Valentina Di Palma “Non è Egli il tuo padre, il quale ti fece suo?” (Devarim 32:6). Così abbiamo letto lo scorso Shabbat in Hazinu, con la cantica finale di Moshe Rabbenu ad Am Israel a rammentare il passato, ammonire ed esortare il popolo a tramandare di generazione in generazione gli eventi accaduti e il dovere morale di rispettare il Patto con D-o. Kadosh Baruch Hu ci ha fatti nuovamente suoi liberandoci dalla schiavitù di Egitto, ed ora in Succah ricordiamo la possibilità di redenzione e di riscatto, in cui dobbiamo credere senza cedere alle lusinghe di voler tornare indietro verso la schiavitù.
Questo mi fa ricordare l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjöll nell’aprile 2010, la quale mi ha colto impreparata mentre partecipavo all’ottava edizione della European Social Science History conference a Gent, in Belgio, insieme al mio secondo figlio che di lì a pochi giorni avrebbe compiuto un anno.
Che cosa c’entra tutto questo con il viaggio dall’Egitto e i quarant’anni di vita precaria nel deserto? Forse assolutamente nulla, o forse sì.
Per tornare da Gent a Firenze ho impiegato venticinque ore, in cui posso dire di aver visto quasi di tutto. Chi decideva di restare a Gent fino a data da destinarsi, in attesa della clemenza del vulcano. Chi si affidava a tassisti abusivi improvvisati per cercare una via verso casa. File estenuanti alla biglietteria della stazione ferroviaria e scene di panico (ma intanto io dovevo trovare un luogo tranquillo dove provare a far mangiare a mio figlio almeno un cucchiaino di pappa di riso senza che la rigettasse, ed il panico non potevo permettermelo). E credo di aver incontrato il peggio e il meglio dell’essere umano.
Il meglio quando a Köln, già abbastanza provata dal viaggio, avendo cinque ore di attesa per il treno successivo sono uscita dalla stazione e ho incontrato un ingegnere boliviano che mi ha chiesto cosa facessi con un poppante e l’aria vagamente stanca, mi ha offerto una birra e l’ospitalità da un’amica cilena per cenare a casa sua e far riposare un po’ il bimbo, ed entrambi mi hanno riaccompagnato alla stazione per non lasciarmi da sola in strada a mezzanotte.
Il peggio, proprio a mezzanotte, quando sono salita sul treno, e nel tentativo di sistemare il bagaglio portando il passeggino chiuso e mio figlio in braccio, il bambino si è svegliato e ha iniziato a piangere.
La famigerata coda che diverse generazioni di antisemiti hanno imputato a noi ebrei, in alcune circostanze farebbe davvero comodo (magari per reggere il passeggino?). E davanti ad un bambino che piangeva a mezzanotte, e che si è peraltro calmato nel giro di dieci minuti, non solo nessuno ha provato ad aiutarmi con i bagagli, ma la collera collettiva è montata sino all’apice della signora italiana che ha minacciato di prendere lei il bambino per farlo tacere. “Se qualcuno lo tocca, tiro il freno di emergenza e fermo il treno”, ho minacciato impassibile. Tutti zitti. Lui si è addormentato. Io mi sono seduta. L’uomo d’affari di fronte a me, il quale per viaggiare comodo aveva comprato i biglietti per ben due posti contigui e da lì ci aveva urlato nei precedenti dieci minuti, ha abbozzato un sorriso imbarazzato tentando una pallida conversazione: siamo tutti stanchi e nervosi, questo vulcano non ci voleva…
Ecco, ogni anno a Succot questo episodio mi ritorna in mente. Abbiamo lasciato l’Egitto ma altra cosa è accettare l’imprevisto, la precarietà della vita in capanne dal cui tetto filtrano le stelle, e le notti nel deserto sono fredde. Forse è più facile tornare indietro. Urlare insieme a tutti i passeggeri che i vulcani non dovrebbero eruttare ed il traffico aereo non può fermarsi, in modo tale da permetterci di continuare con i nostri programmi. Tornare in Succah mi fa pensare invece a quanto ci ha cantato Moshe nella scorsa Parashat ha Shavuah: abbiamo sbagliato, il viaggio è lungo e difficile, ma è nostro dovere morale affrontarlo.

Sara Valentina Di Palma

(1 ottobre 2015)