Insieme a Kippur
Non ho ben chiaro se si tratta di una caratteristica di Livorno, o se ciò è comune in tutte le sinagoghe italiane e del resto del mondo, ma ogni anno alla fine di Kippur, nell’ora di Neilà, il tempio si riempie quasi completamente di una moltitudine variegata di persone, per lo più assenti durante gli altri servizi dell’anno. Ad intuito, potrei affermare, che i suddetti siano composti da: quelli che gli ashkenazim chiamano Kippur-Juden, amici o parenti cattolici che per ragioni di interesse/suggestione vengono ad ascoltare la benedizione dei cohanim, discendenti di famiglie ebraiche ormai parzialmente assimilate, e infine “liornesim” che abitano nella provincia o in altri luoghi e approfittano di questa ricorrenza per tornare nella loro città natale. Molti di loro per esempio indossano il talled, però magari non lo indossano i propri figli presenti, o talvolta i propri padri o fratelli.
Un fenomeno che andrebbe meglio indagato, perché se il tempio di Livorno – una comunità con circa 500 iscritti, che ha una presenza media di 20-40 persone di sesso maschile durante Shachrit di Shabbath – fosse sempre così come a Neilà, la Livorno ebraica, così come l’Italia ebraica non dovrebbe certo temere per il proprio futuro. Al tempo stesso si tratta anche di un buon esempio di come la comunità è riuscita a tessere nei secoli una relazione con la città e quindi con l’altro, e soprattutto tende poi ad esprimere la vivacità e la composizione mista ed eterogenea dell’ebraismo moderno italiano. Un micromondo formato anche da un insieme di persone, che per quanto evanescenti e difficilmente identificabili, conservano ancora un legame con l’ebraismo e che per questo non andrebbero in nessun modo ignorate…
Francesco Moises Bassano
(2 ottobre 2015)