Tramonto libico, il mio racconto

copertina Luzon“Il libro di Raphael Luzon è un libro sincero e pacato. Egli sceglie alcuni ricordi, ma è consapevole che la memoria è ingannevole e che quindi non può essere una prova per affermare delle verità assolute, né uno strumento al servizio di pulsioni ideologiche. Mi sembra che Luzon abbia aperto il grande vaso della memoria prima di tutto per fini terapeutici, per lenire le ferite personali dell’esilio, per dare sollievo alla nostalgia per la sua terra madre, una nostalgia che vive tra le righe di tutte le pagine del libro”. Sceglie con cura certosina le parole lo scrittore Roberto Saviano quando si ritrova a parlare di “Tramonto libico. Storia di un ebreo arabo”, il libro edito da Giuntina di cui firma la prefazione. Il romanzo si incentra sulla storia di una famiglia ebraica di Bengasi,Libia, costretta a lasciare la sua casa insieme a migliaia di persone nel ’67 a seguito di sanguinosi pogrom commessi da alcuni cittadini arabi e l’imminente rivoluzione del colonnello Gheddafi. Un racconto snello e incalzante che si sposta a Roma, in Israele e a Londra fino a tornare nel luogo in cui tutto ha avuto inizio: la Libia. A svelare a Pagine Ebraiche come nasce la sua autobiografia, un poco romanzata ma in fondo assai vera, è proprio Raphael Luzon che questa domenica presenterà il libro al Caffè Letterario di Roma (ore 18.00).

rafael luzonCome nasce l’idea di scrivere Tramonto libico? Quindici anni fa lavoravo per la Rai e avevo stretto una forte amicizia con la direttrice americana della Reuters; un giorno cenando insieme le ho cominciato a raccontare la mia vita e lei è saltata sulla sedia. ‘Ma devi farci un libro, un film!’ ha esclamato. Abbiamo iniziato a lavorarci insieme ma poi il progetto è finito nel cassetto fino a quando Gheddafi mi ha invitato in Libia. A quel punto ho capito quanto fosse importate lasciare qualcosa di scritto alle nuove generazioni. Con l’editore abbiamo deciso di romanzarlo un po’, anche se è praticamente accaduto tutto realmente, e abbiamo cambiato l’ordine cronologico intervallando la narrazione con dei flash che spesso si usano anche nei film contemporanei.

Il libro è anche arricchito dalla prefazione di Roberto Saviano. Come è nata questa collaborazione? In realtà è avvenuto tutto un po’ per caso. Saviano era nell’ufficio di Giuntina; curiosando sulla scrivania ha trovato una copia ed è subito stato entusiasta del progetto, decidendo di scriverne addirittura il commento d’apertura.

Nella narrazione viene spesso rimarcato come, nonostante sia stato costretto a lasciare il suo paese solo perché ebreo, lei non provi alcun risentimento verso gli arabi. Come mai? Nel libro inizio a raccontare dei pogrom fatti ai danni della comunità ebraica dagli arabi, ma specifico anche che in quel periodo ad aiutarci furono comunque altri arabi. Quando venni rapito qualche anno fa durante il mio viaggio in Libia sa chi si è battuto furiosamente per la mia liberazione? Sì, proprio gli arabi. Mi rifiuto di generalizzare, di dire che sono tutti cattivi. Io le prove che un dialogo è possibile ce le ho. Gli ebrei sono sempre riusciti ad amalgamarsi armonicamente nei paesi della cosiddetta Mezzaluna fertile e poi nel titolo del libro spiego chiaramente la mia identità: io stesso sono arabo, sono un ebreo arabo.

Ad un certo punto racconta il suo incontro con Gheddafi, avvenuto poco prima della sua caduta. Cosa ricorda? Sono quarant’anni che studio la storia della Libia ma devo ammettere che mi ha fatto effetto trovarlo a pochi metri da me. Fu molto rude. Mi chiese cosa volevo ottenere da lui e io gli risposi che volevo avere i miei diritti di cittadino libico. Una mossa che lo lasciò molto colpito: per anni i leader della comunità ebraica libica hanno cercato di ottenere il pagamento dei danni materiali. Io voglio per prima cosa il diritto di ritornare. Il mio auspicio è che davvero riusciremo a organizzarci formando una istituzione centralizzata per lottare per ciò che ci spetta. In primis come cittadini.

In questi anni ha continuato a scrivere articoli, a organizzare convegni sulla Libia e nella sua patria natale è una sorta di celebrità… Sì, è vero e le rivelo di più: sono stato contattato qualche mese fa dai capi delle tribù del paese in conflitto tra di loro che mi hanno chiesto di fare da mediatore. Mi hanno spiegato infatti che durante un precedente conflitto nel 1947 a mediare furono proprio i membri della comunità ebraica.

Da ebreo arabo ma anche da studioso del mondo arabo, cosa pensa della situazione attuale? Io non credo del reale legame tra l’Isis e l’Islam: questo gruppo terroristico è nato per sconvolgere il mondo arabo, per smembrare degli stati. Più che primavera araba mi sembra un autunno inoltrato. Per quanto riguarda la crisi in Israele penso che il problema più grande sia la totale mancanza di sintonia con il pensiero arabo. La dirigenza israeliana è ancora troppo distante da loro e formata più che altro da politici di origine ashkenazita. Credo che un leader ebreo proveniente dai paesi arabi potrebbe davvero fare la differenza.

Lei è oramai un londinese d’adozione, quale è la sua opinione su Robert Halfon ministro senza portafoglio del governo Cameron la cui origine è affine alla sua? Non posso che essere contento del successo di un ebreo libico come lui. Durante un convegno che ho organizzato era lui l’ospite d’onore. È una persona sempre sorridente, molto disponibile, che non manca mai di rispondere. Sono contento che ci sia, soprattutto dopo le ultime scelte dei laburisti che hanno messo a capo un leader realmente antisemita.

Ultima domanda: tra tutto cosa è che le manca di più della Libia? Il mare. Quando dopo anni sono tornato a Bengasi ho fatto la lista dei posti che volevo vedere: la scuola, la mia vecchia casa, la sinagoga e poi ho messo anche la spiaggia lasciando tutti stupiti. Quando siamo arrivati mi sono tolto la camicia come Clark Kent e sono rimasto in costume. Sì, mi manca la spiaggia. E il tramonto.

Rachel Silvera twitter @rsilveramoked

(16 ottobre 2015)