Qui Roma – Il grande viaggio di Katja

IMG-20151017-WA000È Katja Petrowskaja, l’autrice del libro rivelazione “Forse Esther” (Adelphi), emozionante viaggio alla riscoperta delle proprie radici, la protagonista della 15esima edizione del premio letterario Adei Wizo intitolato alla memoria di Adelina Della Pergola che si apre in queste ore a Roma.
Dal 18 al 20 ottobre, un’agenda fitta di eventi che va sotto il titolo “Immagini e parole” e all’interno della quale si dialogherà col pubblico attraverso teatro, musica, letteratura.
Petrowskaja sarà nella Capitale lunedì, per ricevere il riconoscimento tributatogli dalla giuria qualificata. Appuntamento alle 17, presso i Musei Capitolini.
La tre giorni romana prende avvio questa sera alle 18, presso la sala Margana, con l’inaugurazione della mostra “Arte per la pace” che ha visto 35 donne israeliane – ebree, musulmane, cristiane e circasse – cimentarsi nel dipinto del medesimo soggetto: un ulivo. Seguirà alle 20.30, al Palazzo della Cultura, lo spettacolo della compagnia teatrale Beresheet LaShalom diretta da Angelica Edna Calò Livne.
Il giorno successivo, come detto, la consegna del premio principale. Insieme alla scrittrice interverranno la giornalista Laura Ballio e la studiosa Donatella Di Cesare.
Martedì mattina alle 10.30, al Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II, l’ultimo atto: la consegna del Premio Ragazzi a Lia Levi per il suo libro “Il braccialetto” (edizioni e/o). Nel corso dell’incontro, condotto da Sira Fatucci, è previsto un intervento del rav Benedetto Carucci Viterbi.
(Nell’immagine la conclusione dell’allestimento della mostra “Arte per la pace” con, tra l’altre, la presidente nazionale Adei Wizo Ester Silvana Israel)

Molte identità, una storia

È durissimo il primo impatto con Katja Petrowskaja, pluripremiata autrice di “Forse Esther”, opera prima che dopo il prestigioso Ingeborg Bachmann Prize ha ricevuto numerosi riconoscimenti in tutta Europa.
La sua risposta alla richiesta di un’intervista arriva nel giro di pochi minuti, e non lascia spazio a malintesi: “Grazie per la mail. Sarei felice di parlarti, è un grande onore essere intervistata dal tuo giornale. Ma devo avvertirti che non mi sento assolutamente ebrea, non ho idea delle tradizioni… inoltre non ho mai fatto parte di una comunità e sono cresciuta come una figlia del regime sovietico. Se pensi che possa interessare lo stesso possiamo parlarci, ma non posso fingere di essere qualcosa che non sono”. Non esattamente quello
che ci si aspetterebbe dall’autrice di un libro che racconta i percorsi di una famiglia ebraica, la sua famiglia,
nei vicoli bui del Novecento. Volendo fare una battuta si potrebbe parlare di resistenza all’analisi, ma l’intensità della Petrowskaja e la sua spiazzante schiettezza non lasciano spazio a leggerezze o affermazioni semplicistiche.
Il tempo passato con lei è fatto di lunghi silenzi, dovuti sia a un’enorme stanchezza che a una necessità profonda di raccontare la verità, che spesso si rivela sorprendente. Una verità che attraverso la ricostruzione della storia della sua famiglia intraprende un viaggio a ritroso nel Novecento, percorrendo le strade già attraversate dall’intreccio di culture e di linguaggi – polacco, russo, ucraino, yiddish ed ebraico – di cui sono composte le sue radici. Forse si chiamava Esther quella bisnonna che nel 1941, a Kiev, chiese fiduciosa a due soldati tedeschi la strada per Babi Jar, poi sede del massacro di decine di migliaia di ebrei ucraini, ricevendo come risposta una rivoltellata distratta. Forse viene da lì quella sua durezza che non risparmia nessuno, a partire da se stessa, che è evidente anche negli incontri pubblici. Come quando in uno dei grandi spazi del Salone del Libro di Torino non nasconde il fastidio per una presentazione di Forse Esther che non pare centrata su quello che il suo libro vuole raccontare quanto sulla rappresentazione di lei e della sua storia che si sono fatti i suoi interlocutori. “Non capisco, in ogni presentazione ci sono regole che vanno rispettate, va lasciato un certo spazio agli autori, ma quei due non facevano che parlarmi addosso. Non parlavano neppure con me, ma solo di me. Anzi, di se stessi, a voler essere sinceri”.
Spaventa, Katja Petrowskaja, ma incontrandola finalmente senza intorno le decine di persone che la cercano per un autografo, per una parola, per una domanda ancora, si scopre una persona che non ha paura di dare risposte brutali e mai scontate, e che fa precedere ogni parola da lunghissimi silenzi, intervallati da sorrisi aperti quanto improvvisi e fugaci.

Forse Esther passa da un successo all’altro. Sei contenta?

Sì. No. Non lo so, sono esausta… E poi mi fa uno strano effetto, ora, sentire i mille discorsi su di me, su quello che ho scritto, su cosa volevo dire.

Non ti ci ritrovi?

A volte, certo. E dicono cose belle, anche commoventi, riescono addirittura a farmi piangere… Ma sono
talmente tante parole, e ragionamenti, e perché ho scritto in questo modo, e come mai in tedesco, e confronti con grandi autori, e io non lo so se hanno ragione,alla fine. E a volte no, non mi ci ritrovo.

In molti hanno scritto che il tuo libro ricorda Austerlitz di Sebald, che a sua volta è considerato l’unica apparizione di grande rilievo nella letteratura di lingua tedesca dopo Thomas Bernhard. Non è poco. E non è l’unico grande scrittore che è stato citato facendo riferimento a Forse Esther.

Posso confessarlo? Io non li ho letti. Non ho letto nessuno di tutti quei grandi libri che tutti si aspettano io abbia letto. Non ho letto nulla di Primo Levi, per esempio. È terribile? Non dovrei dirlo, lo so, ma da qualche parte ho la consapevo-lezza di aver scritto Forse Esther anche per questo, proprio per non doverli leggere.

Il primo premio che hai vinto è l’Ingeborg Bachmann Prize, che viene assegnato a un’opera prima in lingua
tedesca. Ma la tua lingua materna è il russo.

Sì, ho scritto in tedesco, non è la mia lingua. È anche l’unica cosa fittizia del libro. L’ho imparato a trent’anni e i miei genitori non lo capiscono. Per loro – e forse anche per me – si tratta della lingua del nemico. Ma è stato anche un modo per andare incontro alle mie radici, così come mio fratello ha studiato l’ebraico, si è riavvicinato all’ebraismo. Se avessi scritto nella mia lingua materna sarebbe stato una sorta di memoria, in fondo è un libro molto intimo. Scrivendolo in tedesco ho potuto allontanarmene. È il mio tentativo di gestire idee che sono insopportabili. Sono parte della mia storia, ma sono insopportabili anche quando le consideriamo Storia.

Hai detto che il tedesco è l’unica cosa fittizia del libro. Quanto c’è di vero nel tuo romanzo?

Tutto. Assolutamente tutto.

Sono storie divise in capitoli, diversi anche per lo stile che hai usato. Quando lo hai scritto avevi ben chiaro da subito cosa volevi raccontare?

Non lo so. Andavo cercando i pezzi della mia storia. Ho raccontato quello che trovavo, quando lo trovavo
e anche come lo trovavo. Per me qualsiasi strumento era buono… forse è per questo che sono diversi. Sono davvero diversi?

Posso chiederti perché hai scritto Forse Esther?

Non sapevo cosa fare…

Scriverai un altro libro?

Non lo so.

Ada Treves twitter @atrevesmoked

da Pagine Ebraiche, settembre 2015

(18 ottobre 2015)