Radicali senza radici / 3

vercelli Il pensare la destra radicale, come area politica o comunque come spazio della politica, di prassi induce a ricondurne i contorni e il perimetro all’interno dell’universo neofascista e, per estensione, a quello neonazista. Ma la nozione medesima di destra radicale, con le trasformazioni intervenute nel campo della politica, non può essere ridotta alla semplice traslazione al presente di quell’area, come se si trattasse di un tutt’uno, priva di conflittualità al suo interno e capace di riprodursi nel tempo senza mutamenti di sorta. L’orizzonte è quindi più ampio e problematico. Non necessariamente rimanda sempre e comunque ad un qualche fascismo di ritorno. Si pensi, ad esempio, alla pervasività del fenomeno populista, alla sua grande rilevanza nell’età che stiamo vivendo, per più aspetti alla sua inclassificabilità rispetto a categorie, concetti e pensieri maggiormente rodati. Nel populismo, infatti, precipitano esperienze concrete e significati ideologici tra di loro anche antitetici, tenuti insieme dal rimando al “popolo” come entità dotata di una sovranità assoluta, diretta, immediata, onnisciente, capace di esprimere una volontà massificata, unificata, unidirezionale, a tratti quasi mistica. Una mistica del e per il ‘popolo’, quindi, di cui già un Mussolini, a suo tempo, nel fare l’elogio dell’“Italia proletaria”, capace di contrapporsi energicamente alle “demoplutocrazie”, si riteneva depositario. Per buona parte della destra radicale il termine medesimo di popolo rinvia, quanto meno implicitamente, ad un’unità organica di individui etnicamente omogenei. Il populismo comunitarista, al quale una parte della Lega di Matteo Salvini risulta sensibile, è una interessante sintesi di questo trend sociopolitico. Il quale, peraltro, si alimenta della specularità tra crisi degli ordinamenti democratici, fatto che si sta verificando un po’ in tutti i paesi a sviluppo avanzato, e loro sostituzione con forme di rappresentanza degli interessi e della collettività attraverso identità ‘popolari’, le quali non rinviano ad appartenenze di ceto o di classe ma ad una sorta di comunione degli indistinti, raccolta dalle rivendicazioni di formazioni politiche che nutrono una visione totalitaria dell’azione politica. In essa non c’è conflitto e mediazione ma solo distruzione del nemico, ossia di chiunque non sia identico all’idea che si nutre di se stessi. In una ipotetica linea di continuità, dentro la quale inserire tutti i temi possibili che connotano la destra radicale, alle due estremità si potrebbero identificare il comunitarismo etnicista e l’iperliberismo più sfrenato. Non si tratta di caratteri culturali e politici necessariamente antitetici, potendo trovare anche momenti e condizioni di condivisione, se non di contaminazione. Tuttavia, nei loro tratti fondamentali, nella loro essenza elementare, segnano due concezioni distinte della politica medesima. Nel primo caso, infatti, il livello di riferimento rimane la comunità, ossia la dimensione collettiva, ancorché perimetrata dalla condivisione di un’appartenenza etno-razziale rigida e immodificabile. La centralità del discorso sul mito, in questo caso, è indiscutibile: il mito delle origini, il mito delle tradizioni, il mito dell’identità. L’esistenza, quindi, come realizzazione del mito attraverso il sodalizio degli identici. Un fantasia, per molti aspetti, a patto, tuttavia di non considerare mito e mitologizzazione l’inverso della realtà, trattandosi semmai di una narrazione, in forma sacralizzante, del fondamento delle relazioni sociali. Nel secondo caso, invece, è la soggettività dell’individuo, inteso essenzialmente come agente razionale, inserito in una rete di relazioni mercantili, a fare premio su tutto il resto. L’idea di fondo, in quest’ultima accezione, è che la libertà faccia il paio con l’individualità più spiccata, quella che osserva con perplessità, che poi si trasforma in ostilità, ogni evento collettivo che non sia riconducibile alla libera contrattazione nei mercati. Dentro tale costrutto, al netto individualismo si accompagna anche un atteggiamento anti-istituzionale, per più aspetti anarcoide, il quale osserva con diffidenza, se non avversione, ogni forma di intervento pubblico, quest’ultimo inteso essenzialmente come un esercizio intrusivo nell’esistenza privata. Una sfera, la privatezza individuale, che non necessiterebbe di sostegno alcuno che non sia quello che le derivi da una forma di auto-sostentamento. Tra esaltazione del mito della comunità di appartenenza (massimo livello di identificazione e compressione dell’individuo in un organismo collettivo) ed enfatizzazione di una razionalità economica individuale che si riproduce da sé, non necessitando di corpi intermedi e di mediazioni (il più alto livello possibile di soggettività, che fa a meno di qualsiasi raccordo con una qualsiasi forma di organizzazione sociale) si collocano quindi i soggetti della destra radicale nell’età della globalizzazione. Nel primo caso sussiste il maggiore addensamento di soggetti: abbiamo un epicentro – che è anche un vero e proprio laboratorio continentale – con l’Ungheria, attraverso Jobbik e la Fidesz. Nel secondo caso, invece, vanno semmai raccolte alcune pulsioni (piuttosto che specifiche organizzazioni) della destra del Tea Party, anche nella loro rifrazione post-atlantica, ossia all’interno del continente europeo. In altre parole: il radicalismo di destra, all’interno del complesso e composito spazio della politica contemporanea, può contemplare la statolatria, l’esaltazione del sovranismo, il rimando ad una comunità politica fortemente connotata dal punto di vista della sua ‘identità’ e, quindi, del perimetro storico e spaziale, così come il più esasperato individualismo, quello che promette un futuro a chi saprà fare a meno di qualsiasi sostegno collettivo che non sia quello dei propri immediati, diretti omologhi. Nel primo caso l’individuo viene completamente inglobato nella dimensione pubblica, essendone solo un piccolo frammento, un elemento in una sequenza uniforme. Nel secondo, invece, vive di luce sua propria, in una specie di ipertrofia di se stesso e di sogno, a tratti delirante, di autosufficienza. Le milizie paramilitari presenti in alcuni Stati americani, ad esempio, estranee al governo federale, se non in aperta opposizione, enfatizzano quest’ultimo aspetto, di contro alla tradizione militare che, invece, valorizza la dimensione della disciplina intesa come adesione ad un canone di lealtà condivisa. In comune, tra le prime e la seconda, c’è il rapporto esclusivo con la forza. Ma mentre negli eserciti il ricorso alla violenza è in funzione della giurisdizione sovrana che essi esercitano, con il ricorso al suo monopolio legale, essendo questa una funzione essenziale e una prerogativa imprescindibile dello Stato moderno, le milizie puntano all’effetto esattamente opposto, intendendo delegittimare e destrutturare la legittimità di una organizzazione politica pubblica qual è, per l’appunto, lo Stato (di diritto). Detto questo, un’altra discriminante nella galassia della destra radicale è il rapporto con la religione: ci sono partiti, organizzazione e gruppi di matrice cristiana tradizionalista, organizzazioni laiche, gruppi neopagani e gruppuscoli filo-islamisti. Di fatto esercitano una sorta di coesistenza competitiva, trovandosi, nel qual caso, su crinali esattamente opposti. Dopo di che, diventa più difficile collocare nella destra radicale soggetti come il Front National di Marine Le Pen, la cui matrice populista sta conoscendo dei cambiamenti, anche in rapporto a concreti obiettivi politici e istituzionali, mentre, sempre per rimanere sul piano dei riferimenti, va senz’altro ascritto all’area radicale il Groupement de Recherche et d’Études pour la Civilisation Européenne (GRECE) fondato di De Benoist. In generale, tutta la Nouvelle Droite – Nuova destra pare a pieno titolo ancora ancorata ad un discorso radicale ma la diagnosi sulla consunzione dello spazio politico come luogo per eccellenza della decisione nella società contemporanea, è divenuto l’aspetto distintivo della sua proposta culturale, temperata solo dall’interesse per le esperienze populistiche. In generale, la Nuova destra continua a manifestare la sua diffidenza profonda sia per la democrazia che per il liberalismo. Detto questo, e ritornando ad una visione più generale, come in tutti gli arcipelaghi politici, così come tra le forze che li compongono, le trasformazioni avviatesi negli anni Settanta e Ottanta e culminate – infine – nel combinato disposto tra la crisi, e poi il tramonto, del bipolarismo geopolitico a fronte della globalizzazione dei mercati e delle comunicazioni, hanno concorso a creare una crisi di significati e di senso anche nella destra radicale. Evitando le banalizzazioni che rinviano alla ‘fine della storia’ o all’inapplicabilità delle categorie dicotomiche, a partire da quella che divide la destra dalla sinistra, ancora una volta va ricordato che sono semmai mutate le coordinate dell’agire politico come la natura stessa del politico. La destra radicale da sempre si è andata facendo aedo e vessillifero della centralità del ‘politico’ – inteso come sfera di realizzazione della dimensione spirituale, organicista e gerarchica della società – di contro alla gratuita brutalità della sfera ‘economica’ e materiale, di cui la democrazia, come governo della mediocrità, costituirebbe un punto di non ritorno. Enfatizzando quindi la vittoria del primo sulla seconda, si investiva del carattere di portatrice di utopia a venire. Ma i concreti riscontri che ci derivano dalle trasformazioni di questi ultimi trent’anni sono andati in ben altro senso. A lungo la destra radicale di matrice intellettuale ha risposto a tale configurazione degli eventi rivendicando a sé un carattere ‘meta-politico’, sottratto quindi alla verifica dei dati di fatto. Già lo si è sottolineato. Questo atteggiamento,
tuttavia, pare oggi insostenibile. Il mutamento in corso apre infatti ad inedite possibilità di intervento politico. Il discorso etno-differenzialista, la socialità comunitarista di contro al senso vertiginoso di perdita dei confini che la globalizzazione induce in molti, la difesa dello spazio come del luogo non solo di una ‘tradizione’ identitaria ma di una più generale comunione tra identici, sono snodi strategici nella riformulazione di una posizione d’intervento politico diretto. Anche da ciò si dipana il tessuto ideologico e simbolico della nuova destra radicale, con le sue articolazioni a rete: sovranismo e comunitarismo identitario; anti-signoraggio bancario e finanziario; nazionalismo e ‘piccole patrie’; tradizionalismo e religiosità acritica, fondata sulla ‘guerra dei simboli’; rifiuto dell’immigrazione in quanto atto d”invasione’; ossessione per il monosessualismo (rapporti intimi e relazioni sociali tra soli omologhi); sessualizzazione del discorso politico (sulla scia già tracciata, a suo tempo, da Mussolini); elitismo (il governo non degli eletti ma dei benedetti dalla “tradizione”) coniugato a populismo (appello al popolo come massa indistinta, al quale richiamarsi per accreditarsi come soggetti politici); il socialismo nazionalista; l’interventismo e l’elogio dell’atto di forza; il rifiuto radicale dell’islamismo politico o l’identificazione integrale in esso, soprattutto nella sua versione sciita e jihadista.Questa intelaiatura di suggestioni si rivolge ad una pluralità di destinatari. Esistono canali di comunicazione differenziati, a seconda dei soggetti target, essendo ben distinto, a tutt’oggi, l’elemento militante da quello simpatizzante. Le formule adottate nel primo caso hanno una valenza prevalentemente ideologica, dovendo rafforzare il sentimento di appartenenza, già esistente. Nel secondo caso, laddove si ha a che fare con un piccolo arcipelago, dove le diverse formazioni si muovono spesso in competizione tra di loro, il rimando è all’aggregazione sociale (i temi della deprivazione economica, dell’abitazione e del territorio sono oggi un campo di incursione ideale, essendo stati lasciati completamente a sé da ciò che residua della sinistra) e alla comunicazione online. In genere, la militanza ha ancora una forte connotazione ‘fisica’, richiedendo la presenza in campo, degli aderenti. Il numero dei quali è relativamente contenuto, a fronte di un bacino, aggregabile sulle piattaforme web, la cui consistenza non è facilmente misurabile. Vettore aggregativo, ma sempre per un’area ristretta, perlopiù militante, rimane la musica. Dalla seconda metà degli anni Settanta in poi – a partire dall’azione sociale e identitaria sviluppata con le esperienze di Campo Hobbit, e il generarsi, nel decennio successivo, di un circuito di gruppi musicali ‘alternativi’, in un processo che rispecchia, sia pure su un piano politico capovolto, tanto la depoliticizzazione quanto la risocializzazione di alcune aree della sinistra antagonista – una parte della destra radicale ha virato dalla progettualità politica (e quindi dalla centralità del tema dell’organizzazione, perlopiù autoreferenziata) a quello dell’intervento sociale. Un parallelo interessante è quello che si potrebbe tentare di verificare, senza pervenire da subito a conclusioni inossidabili, con i movimenti di reislamizzazione dal basso operanti in Medio Oriente, come Hamas e Hezbollah. Questi ultimi, prima e più di altri, hanno capitalizzato la crisi del terzomondismo laico, delle militanze nei partiti e nei gruppi perlopiù della sinistra marxista, proponendosi prima come interlocutori del disagio e dello smarrimento che da ciò derivava, poi come validi sostituti. Non è allora un caso se elementi di CasaPound trovino, o pensino di potere trovare, interlocutori in quegli ambienti. Negli anni Sessanta e Settanta i referenti delle destre fasciste e radicali nell’area erano il Kataeb e il partito falangista dei Gemayel, assai più prossimi ai modelli di organizzazione politica europei di quanto non sia stato lo sciismo iraniano nella sua versione rivoluzionaria, che ad essi si è in parte sostituito nelle ipotesi di azione politica. Oggi, infatti, l’attrazione esercitata dalle milizie islamiste, è un elemento che trova il suo unico vincolo laddove i militanti vivono la presenza musulmana come una minaccia all’integrità cristiana del continente europeo. Ma, come già si è avuto modo di sottolineare, la destra radicale è divisa al suo interno tra quanti rifiutano integralmente i musulmani e quanti, invece, attribuiscono ad essi una concezione totalitaria e integralista – in sintonia con il proprio sentire – del mondo e della sua riorganizzazione in chiave ‘anti-imperialista’. Un ultimo elemento da considerare sono le tendenze e le idealizzazioni antisemite, connaturate alla destra radicale nella proporzione e nella misura in cui l’ebraismo continua ad essere accostato all’artificiosità e all’innaturalità esistente nel mondo. L’ebreo è l’agente patologico della modernità, che scardina gli equilibri costituivi dell’ordine delle cose, quello stabilito da una qualche potenza superiore e inscritto nel libro della vita. Il mandato che le organizzazioni di quest’area si sono date è quello di ripristinare una presunta ‘naturalità’ nelle relazioni sociali, in genere attribuita all’imperio della ‘tradizione’. Mentre il mondo pensato dal radicalismo di destra è immodificabile, poiché destinato a vedere trionfare, prima o poi, il bello e il giusto, l’ebraismo (o giudaismo) è visto come l’elemento corruttore del processo sociale, laddove quest’ultimo dovrebbe invece ispirarsi alle ‘naturali’ gerarchie di cui il mito della purezza etnica ne è fondamento. Più che chiedersi se la destra radicale sia antisemita, e in quale e quanta proporzione, è quindi meglio domandarsi come lo sia, usando essa il pregiudizio antisemitico come una garanzia di critica al ‘sistema’, con una discreta dose di opportunismo, dettato dal bisogno di non creare eccessivo clamore su di sé. Il nesso antisionismo-antisemitismo sarà tuttavia il vero orizzonte su cui i movimenti radicali, ma anche il pulviscolo rosso-bruno, si daranno sempre di più delle coordinate geopolitiche così come culturali innovative. Ciò vale già per i cosiddetti ‘nazionalisti rivoluzionari’ e i ‘nazionalbolscevichi’ (gli ‘eurasisti’) che ruotano intorno alle teorizzazioni di Aleksandr Dugin e Jean Thiriart. Il campo rosso-bruno, che coniuga sovranità nazionale a ‘lotta per gli oppressi’, nazionalismo a comunitarismo, è già divenuto il terreno prediletto dalla destra radicale europea. I temi del signoraggio bancario, dell’anti-europeismo e dell”antisionismo’, insieme alla promessa di una rivincita degli esclusi, potrebbero confluire in una piattaforma politica di ben più ampio respiro rispetto a quella attuale. La transizione è quindi in atto e troverà negli esiti irrisolti del conflitto israelo-palestinese, così come nel mutamento socio-demografico in corso nel Mediterraneo del pari al declino dell’Unione europea, dei punti qualificanti per rilanciare l’idea di un possibile Ancien Régime, sotto le spoglie di un ‘nuovo ordine’.

(3/fine)

Claudio Vercelli

(18 ottobre 2015)