Periscopio
Educare ad odiare
Uno dei crimini più vili e ripugnanti che, da sempre, viene compiuto in larghe fasce del Medio Oriente, tra il compiacimento di buona parte del mondo e la beata indifferenza della rimanente, è la quotidiana, tenace, metodica educazione – a casa, all’asilo, a scuola, attraverso televisione, giornalini, fumetti, murales… – di milioni e milioni di bambini (palestinesi, libanesi, siriani, iraniani ecc.) a una cultura di odio e di morte.
Solo ieri Jibril Rajoub, membro del direttivo di Fatah, ha esortato tutte le scuole a illustrare ed esaltare le gesta dei terroristi, affinché gli scolari le possano al più presto imitare. “Salviamo i bambini palestinesi”, si leggeva in molti manifesti – esibiti domenica scorsa nel corso della manifestazione di sostegno di Israele – sotto fotografie che mostravano immagini di fanciulli di tenerissima età – sei anni, cinque, quattro… -, con in una mano una bandiera palestinese e, nell’altra, disegni di pugnali, mitra, bombe da usare contro l’odiatissimo nemico.
Come potrebbero mai questi bambini, una volta diventati adulti, distaccarsi da questa terribile intossicazione a cui vengono sottoposti fin dalla nascita? Anche se, per ipotesi, venissero sottratti al loro lugubre habitat familiare, e trasferiti nel più sereno, giocoso e amorevole degli ambienti, i danni da loro riportati sarebbero certamente irreversibili, non c’è bisogno di essere psicologi per capirlo.
Ricordo il caso, una trentina di anni fa, di una bambina che, nei primi anni di età, era stata smarrita dalla famiglia ed era riuscita miracolosamente a sopravvivere nella foresta, insieme agli altri animali, come gli altri animali. Con un appellativo di dubbio gusto, fu chiamata da alcuni giornali “baby jungla”, e si sollevò subito il difficilissimo problema di come potere avviare una strategia di riabilitazione, che permettesse di recuperarne, almeno in parte, le facoltà intellettive e relazionali, permettendole di tornare a vivere in quello che avrebbe dovuto essere il suo mondo. Ma alcuni educatori avvertirono che l’impresa era semplicemente impossibile, e altri osservarono che il correggerne l’inclinazione acquisita sarebbe stato anche ingiusto, perché si sarebbe trattato di una forma di violenza.
Quella bimba, ormai, era uscita fuori dalla civiltà degli uomini, e sottoporla a trattamenti forzata per farvela tornare sarebbe stato, oltre che inutile, doloroso, perché non avrebbe avuto altro effetto che farle percepire l’immensità dell’irrecuperabile distanza tra lei e gli altri uomini e la criticità della sua condizione. Tutte cose di cui, nella pur difficile vita da lei condotta fino a quel momento, non si rendeva invece conto.
Per i bambini palestinesi avviene qualcosa di simile. Per loro il dovere del dare la morte agli ebrei è da sempre il primo insegnamento, più importante della religione, delle tabelline, dell’amore per la mamma, ricevono anche nozioni di anatomia per imparare come recidere la giugulare, come girare la lama nella ferita, in quali veleni intingere l’arma. Come ci si può meravigliare del fatto che tanti di loro, diventati appena adolescenti, con tanta facilità scelgano di passare dalle parole ai fatti, di colpire, di uccidere, distruggendo la vita degli altri e, molto spesso, anche la propria? Perché dovrebbe amare le avita (almeno la propria) qualcuno a cui è sempre stato insegnato, fin dall’asilo, che essa serve solo a dare la morte agli ebrei, e che morire che per tale causa è bello?
Ammettiamo, nella più fantasiosa delle ipotesi, che un domani, per chi sa quale miracolo astrale, scenda la pace e a questi bambini, una volta diventati giovani uomini, qualcuno provi a dire: “Ora basta, non dovete più odiare, non dovete più accoltellare, non andrete in paradiso facendovi esplodere in un autobus di ebrei ecc., d’ora innanzi farete altre cose, tipo studiare, lavorare, mettere su famiglia ecc.”.
Come reagirebbero queste persone? Potrebbero mai ‘resettare’ la loro coscienza, convertire i pensieri di morte in pensieri di pace? Potrebbero mai ‘accontentarsi’ di una avita ‘normale’, di un lavoro ‘normale’, di pensieri ‘normali’? E tutto questo mare di odio, ingrossato, di giorno in giorno, da mille e mille fiumi, dove andrebbe a finire? In cosa potrebbe mai trasformarsi?
Francesco Lucrezi, storico
(21 ottobre 2015)