Il presente come storia
Le recentissime, e vivacemente contestate, affermazioni del premier Benjamin Netanyahu sulla responsabilità diretta del più importante leader palestinese degli anni Quaranta nella strategica decisione nazista di procedere allo sterminio totale di tutti gli ebrei presenti sul pianeta, a partire da quelli posti sotto il tallone tedesco, non sono negazioniste.
Non negano nulla, infatti, semmai rilanciando, in modo quasi ossessivo, la centralità del tema della Shoah nella costruzione dell’identità ebraica contemporanea. E in quella israeliana. La qual cosa, sta diventando una questione sulla quale interrogarsi. Poiché diventa quasi una sorta di funzione sostitutiva, alternativa a quel molto di ciò che l’ebraismo può offrire di sé.
Così ha letteralmente affermato il Primo ministro: “And this attack and other attacks on the Jewish community in 1920, 1921, 1929, were instigated by a call of the Mufti of Jerusalem Haj Amin al-Husseini, who was later sought for war crimes in the Nuremberg trials because he had a central role in fomenting the final solution. He flew to Berlin. Hitler didn’t want to exterminate the Jews at the time, he wanted to expel the Jews. And Haj Amin al-Husseini went to Hitler and said, “If you expel them, they’ll all come here. ‘So what should I do with them?’ he asked. He said, ‘Burn them’.”. Come ogni evento storico che si trasformi in una sorta di fattore periodizzante, e quindi in una metonimia del male, il rischio che da oggetto di discussione la Shoah trapassi in un oggetto ideologico, da prendere, usare, abusare, scagliare contro qualcosa o qualcuno di presente, è immediatamente dietro l’angolo. La tentazione è troppo forte. Ad onore del vero, si tratta di una tentazione trasversale, variamente vissuta e declinata. Lo ha fatto in questi giorni un leader politico israeliano di primaria grandezza. Lo hanno già fatto, nei tempi trascorsi, altri personaggi pubblici, a favore o contro le vittime del passato così come degli ebrei del presente, con echi minori solo perché minore è la loro rilevanza nel dibattito pubblico.
La prima cosa che viene in mente, per associazione di idee, dinanzi alla torsione che il Primo ministro israeliano ha offerto del passato, di quel passato così importante, è l’atteggiamento delle controparti palestinesi e arabe che, sul tema, hanno elaborato da molto tempo diverse ‘teorie’ e svariate posizioni, tutte convergenti in un combinato disposto tra minimizzazione, relativizzazione e, infine, negazione. Lo scaltro esponente di tali posizioni, a geometria variabile, poiché adeguate al calcolo delle circostanze del momento, è Abu Mazen, estensore di una tesi di dottorato dal taglio negazionista. Fatto, tra i tanti, che va ricordato adesso proprio perché non si intende attenuare l’impatto delle altrui esternazioni, semmai rammentando che esse cadono in un tale contesto, al contempo ingarbugliato e molesto, da molto tempo dato e strutturato come immodificabile. Un contesto dove la lotta sui simbolismi, il conflitto sullo status politico di ‘vittima’, è parte integrante della contrapposizione in corso. Poiché, a dire altrui, quello dello sterminio nazista non sarebbe un passato di cui farsi carico comunemente ma la finzione con la quale l’’entità sionista’ si rilegittima con costanza. Ricattando l’Occidente e mettendo sotto la sua sferza ‘criminale’ le vere vittime della storia, i palestinesi.
Netanyahu precipita – letteralmente – su questo campo minato, fatto di silenzi così come di eccessi cacofonici, di mutismi interessati come di urla e latrati. Lo fa avendo ad oggetto non la comprensione del passato, di quel passato, ma la giustificazione del presente, del suo presente di leader. Si tratta di una manovra che ci rivela più del suo disagio e dei suoi affanni che non di un tempo politico a venire, quest’ultimo semmai ridotto – anch’esso, come qualsiasi altra dimensione visuale – ad un asfittico presente, fatto di ripetizioni compulsive piuttosto che di innovazioni e trasformazioni. Si tratta di un orizzonte, quello del conflitto israelo-palestinese, dove ogni cosa si è oramai da molto tempo cristallizzata, trasformando quelle che un tempo erano, malgrado tutto, delle potenzialità, ancorché contrapposte, in simulacri maniacali e nulla di più. In questa dinamica, ripetiamo, Netanyahu non è un ‘negazionista’.
Per il semplice motivo che non nega nulla ma trasla altrui responsabilità storiche sull’avversario di turno, confidando che un tale esercizio, al di là della stessa mancanza di riscontro storiografico, possa comunque funzionare, in un tempo, quello che stiamo vivendo, dove tutto viene presentificato. Auschwitz è tutto ed ovunque, ragionano i ‘presentificatori’; quindi, può anche essere in nessun luogo, riducendosi ad una mera categoria della contrapposizione politica. Il filosofo Leo Strauss usava, negli anni che furono, una espressione sarcastica, la ‘reductio ad Hitlerum’, per dare di conto della prassi di squalificare gli interlocutori non nel merito di ciò che sono o di quanto vanno dicendo bensì accostandoli al ‘male assoluto’. Chi ha pratica di social network, lo sa bene: si può esordire parlando della bella giornata di sole, per arrivare, dopo una ventina di post, a Goebbels.
A Netanyahu si possono opporre una miriade di obiezioni. La più ovvia è che il ricorso disinvolto alla storia, ossia il suo cosiddetto ‘uso pubblico’ (una sorta di tautologia, poiché la storia è per definizione qualcosa di pubblico e ciò che è pubblico si presta a svariati “usi” ed anche, purtroppo, a molti, abusi), per finalità strettamente politiche, è un peccato capitale, che si sconta, prima o poi, con gli interessi. Costosissimi. Ma lo stare al punto, ovvero l’identificare quale sia il vero tornante problematico che il suo dire ci segnala, non può ridursi a registrare questo aspetto, in sé quasi banale, purtroppo. Poiché il Premier, stabilendo una diretta relazione tra Shoah e vecchia leadership palestinese (all’epoca invero molto debole, divisa al suo interno in fazioni e gruppi concorrenti, lontana dal tutelare gli interessi di una comunità nazionale ancora frammentata, quindi distante dall’’identità’ condivisa che i suoi sostenitori di oggi invece gli attribuiscono), paradossalmente, conferisce alla seconda un potere politico che non aveva allora e che, a conti fatti, non ha neanche oggi. Per una parte del mondo antisionista, a partire dalle componenti ferocemente islamiste, l’equazione tra sterminio e Muftì è musica per le proprie orecchie. Non procura nessun modo di ragionevole indignazione ma, piuttosto, un senso di identificazione. Conforta il pregiudizio bestiale per cui quella è l’autentica strada da seguire, rafforzando l’intimo convincimento che si debba riprendere il cammino interrotto allora. Per chi, invece, cerca di ragionare del proprio, l’imbarazzo e lo sconcerto rischiano di essere il punto di partenza in un percorso di disincantato allontanamento, spesso silenzioso, da ciò che vorrebbe invece condividere come patrimonio proprio. L’identitarismo di cui il populismo di certi partiti, movimenti e gruppi si sono fatti vessilliferi è non solo uno dei segni del tempo corrente ma ciò che può erodere la ragione stessa dello Stato nazionale. L’inflazione di accuse, gli alti lai contro le minacce incombenti, i corsi e ricorsi al passato non ne corroborano la forza di resistenza. Essi, infatti, non sanno disegnare e donare un significato al comune domani che non sia consegnato solo alla paura. Semmai, quindi, la indeboliscono. Si sarà inteso che il problema sollevato dalle affermazioni di Benjamin Netanyahu di storico e storiografico, alla resa dei conti, ha ben poco, mentre investe appieno la questione della forza del politico nel definire un futuro inclusivo (e non di altro genere) così come, al medesimo tempo, chiamano in causa il senso di responsabilità di una società civile liberata dalla mistica della sua presunta onniscienza. C’è un problema di leadership del pari ad un problema di riassunzione del senso della misura tra le persone. Ai deliri altrui non si risponde con la condiscendenza verso le forzature proprie, riavvolgendo il nastro delle parole e attorcigliandolo dentro un fittizio esercizio di esegesi, volto esclusivamente a giustificare e non a comprendere le discontinuità di quanto è stato detto e fatto. Il resto è cenere. Che riposi tra di noi. Ma è bene vedere oltre. Non di cenere sono fatte le grandi costruzioni. Israele raccoglie, tra gli altri, il lascito della Shoah. Non ne è il prodotto storico e, men che meno, il risarcimento o la compensazione. Cosa, quest’ultima, che piace invece pensare ai suoi innumerevoli detrattori.
Claudio Vercelli
(25 ottobre 2015)