Un Medio Oriente tutto sbagliato
Il leggendario Gino Bartali, Giusto delle Nazioni, era solito dire: “Per me è tutto sbagliato”. Triste ma vero, questa sembra anche essere una buona chiave di lettura dell’attuale turbolenza in Israele e Palestina. In questa commedia degli errori vediamo in campo da un lato i palestinesi che intensificano le attività terroristiche contro gli israeliani, dall’altro il governo di Israele che cerca di contenerle. All’esterno del campo, da un lato le maggiori potenze che cercano ognuna di raggranellare qualche vantaggio politico, e dall’altro il reportage dei media che influenzano a volte in modo selvaggio l’opinione pubblica internazionale. La domanda che tutti ripetono è se sia in corso la terza intifada, come se questo interrogativo avesse rilevanza. Intifada, per chi non lo sa, significa scrollamento, come fa un cane con le gocce d’acqua dopo che è stato abbondantemente bagnato con una pompa. Sarebbe lo scuotimento dei palestinesi dal giogo dell’occupazione israeliana. Quello che vediamo in queste ultime settimane non poteva cogliere di sorpresa gli osservatori più attenti. La strategia islamica nei confronti di Israele è stata definita molto lucidamente dall’ayatollah Khamenei, il capo supremo del regime iraniano, in questi termini: “Distruggere Israele, e comunque, con l’aiuto di Allah, non concedere un solo giorno di pace al regime sionista”. Da parte sua, lo scrittore e analista politico palestinese Ahmad Rafiq Awad ha detto: “I mezzi utilizzati nella seconda intifada non possono essere utilizzati in qualsiasi sollevazione futura, ma le persone sono innovative nella creazione di nuovi mezzi. Abbiamo bisogno di una intifada di bassa scala che non paralizzi la vita sociale, ma mantenga l’occupazione e i coloni in uno stato di tensione e di insicurezza, mentre gli scontri dovrebbero essere distribuiti in tutte le regioni”. In altre parole, è la strategia della tensione permanente tanto ben nota in Italia dai giorni di Lotta Continua e delle Brigate Rosse. L’innovazione semmai è che questa oltre che l’intifada dei coltelli è l’intifada dei telefonini. L’arruolamento dei partecipanti agli attentati avviene in gran parte attraverso i più aggiornati strumenti delle reti sociali. E va anche detto che per la prima volta tutti gli attentati vengono documentati in diretta con l’uso dei cellulari con effetti forse devastanti per gli spettatori più sensibili ma certo molto utili per le indagini sulle fonti e le reti del terrorismo. Ma la fallacia clamorosa dell’intera operazione, nuova intifada o nonintifada, è che i sionisti siano dei figuranti artificiosi, imposti dagli imperialisti americani su una terra palestinese rubata, e pronti a fuggire da vigliacchi alla prima difficoltà. In questa caricatura antisemita Arafat e i suoi successori non hanno voluto intendere che la realtà dello Stato di Israele è irreversibile, sempre più solidamente impiantata sul territorio, e costituita da una popolazione che nella grandissima maggioranza è nata sul posto e quindi non ha nessun altro paese al mondo da poter chiamare patria. Dunque nessuna fuga di fronte ai missili da Gaza e ai coltelli in Cisgiordania, ma semmai la determinazione a difendere le proprie case e le proprie famiglie. Anche il governo di Israele, però, ha la sua parte di colpe. La prima e più grave è quella di continuare a pensare che il non fare nulla a 48 anni dalla guerra dei Sei giorni, il classico laissez faire, o anche il concetto un po’ più sofisticato della gestione del conflitto possano pagare a lungo termine. Benjamin Netanyahu ha formato un governo estremamente limitato e monocolore che si regge su un solo seggio alla Knesset, dopo aver pesantemente insultato i partiti del centro- sinistra mettendo in dubbio la loro lealtà allo stato durante la campagna elettorale. Ora questi altri partiti gli mancano molto nella coalizione parlamentare, perché se ci fossero sarebbero il facile capro espiatorio su cui gettare l’accusa che “lui ha le mani legate”. Invece nessun capro espiatorio e nessune mani legate: Bibi è sempre più non solo la voce dominante ma, di fatto, l’unica voce di questa amministrazione, colui che oltre a essere primo ministro funge anche da ministro degli Esteri, delle Comunicazioni, del Negev e della Galilea, e dello sviluppo regionale in Medio Oriente (e nei mesi passati anche della pubblica istruzione e della sanità). E quindi la responsabilità sulla conduzione di Israele cade oggi esclusivamente su di lui. Questo accumulo megalomane di cariche svetta su una schiera di giovani ministri, nessuno dei quali ha le qualifiche tecniche per dirigere il proprio dicastero, ma ognuno dei quali invece spende tempo come attivo polemista nei dibattiti televisivi. Lo stesso è avvenuto nelle ultime nomine di quattro nuovi ambasciatori israeliani in posti chiave, nessuno con un passato di carriera diplomatica ma tutti esperti polemisti. L’attuale governo israeliano scarseggia della cultura, dell’esperienza e della perizia politica che sarebbero necessarie per misurarsi con le sfide di questi giorni che ovviamente fanno parte di un piano di lunga durata. Soprattutto è decisivo capire come concludere la tenzone con il minimo di danni subiti e con il massimo di esiti positivi per la società civile. Le affermazioni che Israele stia violando lo status quo sulla spianata del Tempio e delle Moschee non hanno alcuna base nella prassi. Piccoli gruppi di giovani asserragliati nella Moschea di Al-Aqsa creano gravi disordini (e grandi danni fisici al loro luogo santo) basandosi sul nulla ma riescono, con un effetto pavloviano, a eccitare numeri ancora maggiori di esaltati, spesso minorenni, che corrono per le strade con i pugnali sguainati imitando i gesti dei capi di Daesh-Isis visti poco prima sui piccoli schermi. Ma è anche vero che dichiarazioni e iniziative come quelle del cupo e arrogante ministro dell’Agricoltura (e prima dell’edilizia) Uri Ariel producono solo danni allo Stato d’Israele, tant’è vero che lo stesso Netanyahu ha invitato i propri ministri ad astenersi dal salire sulla spianata.
I palestinesi non hanno ancora superato il Rubicone del riconoscere che la soluzione della divisione in due stati per due popoli, sostenuta dalla maggioranza della popolazione israeliana, dev’essere fra uno Stato arabo e uno Stato ebraico, secondo la definizione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel novembre 1947. Stati che dovrebbero essere democratici (almeno quello ebraico) e aperti alla collaborazione. La negazione pertinace che gli ebrei siano un popolo, e non solo una religione, e dunque non abbiano diritti di sovranità nazionale, parte dallo stesso Abu Mazen che giorni fa ha parlato dei luridi piedi degli ebrei che insozzano la Spianata. Il grande sobillatore peraltro è anche il grande moderatore perché il presidente, ormai decaduto da anni, dell’Autorità palestinese sa bene che se scoppiasse una grande sommossa popolare armata, come fu l’intifada del 2000 condotta da Arafat, il primo a perderci sarebbe lui stesso. La rivolta si dirigerebbe verso Ramallah prima che su Gerusalemme. Ai bordi del campo, l’incoerenza e l’inettitudine del gioco delle potenze lascia interdetti. Obama, dopo aver promesso di bombardare il regime di Assad che aveva liberamente usato armi chimiche contro l’opposizione, e dopo averlo restaurato a suo alleato assieme ai suoi sponsor iraniani, ha perso la palla sottrattagli dal più furbo Putin. Americani e russi bombardano senza sosta obiettivi civili, involontariamente o a ragion veduta (come nel caso dell’ospedale in Afghanistan), ma i media non sembrano particolarmente indignati come lo sarebbero se le stesse operazioni fossero condotte dall’aviazione israeliana. Giornalisti e politici si affannano a parlare di violenza dalle due parti e creano una grottesca e inesistente simmetria ad uso dei molti che ancora non capiscono come si sia giunti alla situazione attuale. In queste condizioni è impossibile prevedere la fine del conflitto. Da parte di Israele occorre contenere i danni ma allo stesso tempo fare molta più politica, proporre dei piani, collaborare con i potenziali governi alleati e non con l’opposizione come ha fatto Bibi in America. Marcatura a uomo in difesa, e contropiede veloce in attacco.
Sergio Della Pergola, Università di Gerusalemme