Leggere
Non leggete La zona di interesse. Vi farà male, male forte e a lungo. Leggete Non luogo a procedere. Vi farà bene.
Martin Amis e Claudio Magris non potevano non scriverli, questi due falsi romanzi, queste vere storie mascherate. Entrambi hanno urgenze antiche e solide, godono di rispetto e – cosa non meno importante – vendono bene, in molte lingue.
Con questi due libri – imprescindibili per chiunque pensi che “nessuna persona seria pensa mai a qualcos’altro ”, come scrisse lo scrittore W.G. Sebald a proposito della Shoah – , due fra i maggiori autori europei del nostro tempo affrontano l’indicibile: per il solo fatto di combattere con l’angelo meritano comprensione, affetto e stima, anche se solo uno dei due lo sconfigge.
Ora, caro Lettore, concedimi di raccontarti qualcosa dei miei giorni di corpo a corpo con questi due libri: mi ci vorrà un po’ di spazio in più, ti chiedo attenzione.
“Una storia dell’Olocausto deve essere contemporanea ”, scrive lo storico americano Timothy Snyder nella introduzione del suo libro Black Earth: The Holocaust as History and Warning (Tim Duggan Books). Né Magris né Amis possono averlo letto prima di scrivere i loro romanzi, ma pare che ne condividano invece l’assunto. Il modo con cui cercano di dimostrarlo è però diverso, quasi opposto.
L’autore triestino sceglie di prendere spunto, con le licenze proprie dello scrittore ‘inventore di storie’, dalla vita estrema e straordinaria di un personaggio vissuto a Trieste, Diego de Henriquez, morto in circostanze ancora oscure, nel 1974. Attraverso una struttura originale, multivoce, Non luogo a procedere (Garzanti) presenta al lettore una vera e propria galleria di rappresentazioni, è una mostra che si visita, proprio come le sale del museo che de Henriquez aveva in mente, e che non poté realizzare. Luisa, formidabile e ben riuscito personaggio immaginario, vive adesso a Trieste, ed stata incaricata di essere la curatrice, l’ordinatrice di questo progetto, di questa expo della guerra costruita come monito, come invito alla pace. Frequenti e ben collegati excursus irrompono nel romanzo, ne documentano sia l’approfondito lavoro di ricerca, sia la capacità poetica di Magris che, all’opposto di Amis, è stato prima saggista e poi narratore. La leggerezza densa con cui lo scrittore triestino riesce a far rivelare le tracce delle vite dei suoi personaggi, anche quelle ignote a loro stessi, è il risultato maggiore di un’opera che – lo si legge, lo si sente – gli è costata molto in termini di tensione, lavoro, partecipazione e tentativi di distacco. Il suo è davvero un salto nel vuoto, un tuffo in un mare che forse non c’è, come magnificamente rappresentato dalla foto di Frédéric Mars che è la copertina del libro. Un vuoto dal quale lo scrittore, generosamente, recupera e mostra la pienezza, le prove.
Siano sottomarini da vendere o comprare; incontri casuali ma necessari; tank e sistemi di puntamento; taccuini bruciati o nascosti; vite tradite e riscattate; lingue morte e resuscitate; libri sacri e profani, maledetti o edificanti; cerimonie pompose o frammenti intimi; scene di famiglia o manifestazioni di piazza; nomi e cognomi celebri o seppelliti nei ricordi di Nessuno: il vuoto cui ci affacciamo, indicibile per definizione, si popola di presenze, di fatti, di peso, di sangue.
Questo museo impossibile – mi pare ci suggerisca, ci insegni, ci mostri Claudio Magris – può e deve esser visitato, ricordato, e la sua lezione imparata. Ma solo da chi sa trovarla in se stesso, perché è per ciascuno di noi che suona la campana, ma la Storia spesso non emette la sentenza: è un non luogo a procedere.
L’illustrazione di Davide Benazzi che è la copertina de La zona di interesse ( Einaudi, traduzione di Maurizia Balmelli) è altrettanto evocativa del contenuto del libro di Martin Amis: filo spinato e uccellini, in controluce.
Le edizioni anglosassoni de La zona di interesse hanno il filo spinato in copertina, ma non gli uccellini, né posati né in volo; a volte ci sono roselline a coprire i nodi di ferro ritorto: che banalità per un romanzo antiretorico, crudele, irriverente, efficace!
La storia d’amore fra Golo Thomsen, il nazista colto, donnaiolo e ben imparentato, e Hannah Doll, la bella moglie del perfido comandante del campo di sterminio è solo una scusa (oh, magnificamente sviluppata, eh!) per narrare l’ordinario orrore dei giorni e delle notti di Auschwitz. Tre le voci di questo trio senza pianoforte con cui Martin Amis torna, a decenni di distanza da La freccia del tempo, al tema ineludibile della Shoah. Con il tono piatto, e tanto più straniante del ‘business as usual’, Golo parla di ciò che fa e vede, mescolando flirt a selezione, bevute a gasature, aneddoti sarcastici a frammenti di umanità. Il comandante Paul Doll – marito indegno, ubriacone, vile – racconta al suo diario la propria miseria anche se crede di star scrivendo il proprio trionfo: è una tragedia quella che leggiamo, o una farsa? Ma è la voce di Szmul, il capo dei Sonderkommando, a segnare la nota più tragica e nobile. La tristezza, il coraggio, la pena e il riscatto di Szmul sono, sono…
Non ho parole, scusatemi, per dirvi quanto l’eco di questo romanzo straordinario e durissimo mi faccia vibrare ancora, ancora adesso che ne scrivo. Leggere, dopo aver posato – turbato e sfinito – il romanzo, le pagine intitolate Ringraziamenti e Postfazione: “Quel che è accaduto ”, è sale sulla ferita aperta, è sigillo, è sentenza. L’accuratezza delle fonti, l’estensione della ricerca, la calibratura dei pesi su cui tarare il filo del racconto risaltano come gocce di sangue sulla neve, sono ferite aperte. E mi accorgo, mi rendo conto – dolorosamente ma inoppugnabilmente – che forse il romanzo finisce a pagina 292, ma il libro no: quando Amis prende direttamente la parola, è da questa quarta voce che tutto quanto è stato raccontato assume senso e sentimento.
Capisco le viltà di alcuni grandi editori europei che non hanno voluto tradurre il libro; capisco il rifiuto di alcuni commentatori, lo sdegno di alcuni lettori. Giuro, ne ho rispetto e comprensione. Ma io, come ho imparato da Franz Kafka, penso che : “Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno che ci martelli sul cranio, perché dunque lo leggiamo? Buon Dio, saremmo felici anche se non avessimo dei libri, e quei libri che ci rendono felici potremmo, a rigore, scriverli da noi. Ma ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che ci piombano addosso come la sfortuna, che ci perturbano profondamente come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come un suicidio. Un libro deve essere una piccozza per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi”.
Valerio Fiandra
(3 novembre 2015)