Periscopio
Ricordare Rabin
Commemorare la tragica morte di Rabin, vent’anni dopo, suscita sentimenti contrastanti, e impone diverse chiavi di lettura. E credo che un atteggiamento corretto sarebbe quello di distinguere tra due diversi livelli, che sarebbe opportuno lasciare distinti.
Il primo livello è quello di una interpretazione del passato, ossia di cosa abbia rappresentato la figura di Rabin nella storia di Israele e del mondo, e di cosa abbia significato il suo barbaro assassinio. E non c’è dubbio che ogni discorso su questo piano non possa che aprirsi e chiudersi con un commosso tributo alla memoria del grande statista, che ha donato tutta la sua vita al perseguimento del doppio obiettivo della pace e della sicurezza del suo Paese: un obiettivo doppio, ma per lui, in realtà, unico, tanto era in lui radicata la convinzione dell’indissolubile legame tra le due cose. A un giornalista che gli rivolgeva la solita, banale domanda, se si considerasse “falco” o “colomba”, rispose che non era un uccello, e che comunque, più Israele era forte, più si avvicinavano le prospettive di pace, e che lui e il suo popolo non avrebbero mai potuto permettersi il lusso di abbandonare uno dei due obiettivi: “mai stanchi di difenderci, mai stanchi di desiderare la pace”. La sua lezione, da questo punto di vista, è eterna, e non potrà mai tramontare, in quanto coincide con l’essenza stessa del sionismo, che è, insieme, intransigente difesa dell’identità nazionale del popolo ebraico e della sua patria risorta, e incrollabile aspirazione alla pace.
Naturalmente, non vanno mai dimenticate né minimizzate le circostanze della sua morte. Quel giorno Israele fece l’amara scoperta di coltivare nel suo stesso seno un bubbone violento e distruttivo, che mirava a smantellare le stesse basi della sua civiltà e della sua democrazia, e i cui segni si erano evidentemente sottovalutati. La lezione che viene da quel terribile delitto è che lo stato ebraico non deve lottare, purtroppo, soltanto contro i nemici esterni, ma anche contro quelli interni, che tramano annidati nelle pieghe di un estremismo fanatico ed eversivo, che non dovrebbe avere alcuno spazio nel consesso civile. Vent’anni dopo, sappiamo che quel pericoloso radicalismo non è ancora completamente estirpato – sconcerto e ripugnanza, per esempio, hanno suscitato le minacce rivolte al Presidente Rivlin da parte del fratello di Yigal Amir -, e che la vigilanza non può mai essere abbandonata.
Ma c’è poi il secondo livello di lettura, ossia una riflessione su come potrebbe essere concretamente applicata, al giorno d’oggi, l’eredità di Rabin. Qui il discorso si fa più delicato e controverso, e non nascondo che molti commenti che ho letto, anche da parte di politici, intellettuali e artisti israeliani, non mi trovano d’accordo. Credo che non si renda un degno omaggio all’eroe scomparso collocandone la figura e le azioni fuori dal tempo, e paragonando le sue scelte con quelle operate successivamente da altri leader, in contesti politici e storici completamente diversi.
Nessuno è autorizzato a dire cosa farebbe oggi Rabin, ma, essendo egli stato certamente un uomo di alta intelligenza e di altrettanto grande intuito politico, l’unica cosa certa è che non avrebbe cercato di ripetere acriticamente le stesse identiche azioni del passato, in un mondo completamente diverso. Agli inizi degli anni ’90, dopo la caduta del Muro e la prima guerra del Golfo, si era diffusa la sensazione che gli ideali del cosiddetto Occidente avessero ormai trionfato, dovunque, e che, in questo nuovo scenario, anche gli storici, irriducibili nemici di Israele si fossero infine arresi alla realtà del nuovo mondo. In questo scenario, a Rabin parve di scorgere uno spiraglio di pace anche per il Medio Oriente, e ritenne suo preciso dovere andare a esplorare l’inedita, ardita opportunità.
In realtà, quel sogno di pace si è presto rivelato una tragica illusione, e la storia ha eloquentemente dimostrato come dall’altra parte non sia mai esistita la benché minima seria intenzione di dire davvero la parola ‘fine’ al conflitto. Quando Rabin era ancora vivo, Arafat disse testualmente di non avere fatto altro che una pura finta tattica, una tregua temporanea (la famosa “hudna”) per indebolire il nemico e poi sopraffarlo, sull’esempio del Profeta. E quando le strade di Israele venivano straziate da una ‘piazza Fontana’ al giorno, l’unico dubbio era se Arafat fosse diretto mandante, attivo complice, o spettatore inerte e compiaciuto; certo, non un vero oppositore, come pure avrebbe dovuto, in forza di quegli accordi che aveva firmato. E quando, nel 2000, il premier Barak gli fece il massimo delle concessioni immaginabili, Arafat disse ancora di no, tornando poi a casa esultante per non avere firmato alcun accordo di pace. Qualcuno può forse immaginare che Rabin avrebbe offerto ad Arafat ancora di più? O che Arafat, di fronte a offerte ancora più generose, avrebbe infine detto di sì?
D’altra parte, Rabin era certamente consapevole, con quella famosa stretta di mano, di correre un grande rischio, e, come è stato giustamente richiamato, il suo stesso ‘linguaggio del corpo’, in quell’occasione – con quella mano esitante, quasi tremante – mostra tale consapevolezza. E credo che la stessa consapevolezza fosse anche nell’animo dei tanti cittadini di Israele che lo appoggiavano. Si sperava che il corso della storia sarebbe comunque andato in una certa direzione, mentre andò poi, purtroppo, nella direzione opposta.
È certamente vero, come viene spesso ricordato, che Rabin fu sottoposto in vita, da parte dei suoi oppositori politici interni, ad attacchi personali ingiusti e violenti, che andavano anche molto al di là della legittima dialettica politica, e che devono essere giustamente condannati con fermezza, in quanto estranei alle regole della democrazia e del vivere civile. Ma sarebbe ingiusto condannare in blocco tutti quelli che non vollero credere in quella speranza, bollandoli collettivamente come “nemici della pace”. Così come sarebbe ingiusto condannare l’elettorato di Israele, che, un anno dopo l’assassinio, scelse di esprimersi in un modo diverso. La scelta non era tra pace e guerra, così come il popolo israeliano non si divideva, e non si divide, tra buoni e cattivi. Molti, semplicemente, non credevano più a trattative condotte in un perenne scenario di sangue e terrore, in una pressoché assoluta mancanza di fiducia nella buona fede della controparte, e ritennero urgente dare un colpo di freno. Tale sfiducia non può non essere capita e rispettata, così come va capita e rispettata la volontà di coloro che continuarono ad avere, nonostante tutto, un diverso orientamento. Al di là di ogni personale opzione politica, credo che fosse l’animo di ogni singolo cittadino israeliano a essere lacerato, attraversato da sentimenti contrastanti.
Dire che, con le elezioni del 1996, siano andati al potere i mandanti dell’assassinio di Rabin rappresenta, a mio avviso, un’offesa all’intero popolo d’Israele, e alla sua democrazia. E dire che il processo di pace sia stato cancellato dalle pallottole di Yigal Amir è una grande distorsione della realtà, e concede un’indebita sopravvalutazione al bieco criminale. Amir è un nemico di Israele, un nemico della democrazia, un nemico della pace, l’antitesi di tutti i valori della civiltà ebraica, ed è giusto che sconti fino in fondo la sua meritata condanna. Ma resta ‘solo’ lo spregevole assassino di un uomo integerrimo, di un leader giusto e coraggioso, di una grande guida politica e morale; non del processo di pace, che era in ogni caso destinato – nonostante la forza, la generosità, il coraggio di Rabin – al fallimento.
Francesco Lucrezi, storico
(4 novembre 2015)