Nomi

Sara Valentina Di Palma Una conoscente mi ha mandato il link per acquistare online il suo ultimo libro pubblicato in Gran Bretagna, con l’avvertenza di non cercare il testo per autore, ma inserendo il titolo, perché sul sito internet l’autrice compare con il nome storpiato. Fastidioso, indubbiamente, ma sdrammatizzando le ho ricordato abbiamo casi celebri di nomi modificati leggermente ad indicare un cambiamento identitario importante e positivo.
“Il mio Patto con te è questo: tu sarai padre di numerosi genti. Non ti chiamerai più Avram, il tuo nome sarà Avraham perché ti faccio padre di numerose genti” (Bereshit 17, 4-5). Così abbiamo letto da poco a Shabbat Lech Lecha, e il cambiamento di nome sancito da Kadosh Baruch Hu nel patto con il nostro primo patriarca segna l’inizio di Am Israel. Poco oltre D-o indica ancora: “Sarài tua moglie non chiamarla più Sarài; il suo nome sia Sara” (Bereshit 17, 15).
Per entrambi, l’assunzione di un nuovo nome indica un cambiamento radicale di vita dall’idolatria al vivere in società con D-o, con la responsabilità di creare insieme un nuovo popolo. Cambiare nome e cambiare destino, come accadrà a Yakov/Israel, è tanto importante da essere suggellato con la circoncisione, il Patto della parola. IlTalmud specifica che diventare Avraham e Sara significa non cambiare semplicemente destino ma piuttosto status, dal particolare all’universale, rispettivamente da padre di Aram ovvero originario della città di Aram Naharayim ad Av Hamon Goyim, padre della moltitudine di genti, e da principessa e guida per Avraham a madre del mondo intero (Berachot 13a). Eppure sembrava piccolo il cambiamento di una lettera sola, una Yudche, ci dice ancora il Talmud Yerushalmi, viene tolta dal nome di Sarai e divisa in una Heiaggiunta ad Avram e una seconda Hei a Sara (Sanhedrin 2,6).
L’assunzione di un nuovo nome non indica mai un cambiamento positivo, mi fa presente la mia amica, quando il mutamento identitario viene imposto piuttosto che essere scelto. Tra i tanti, mi cita il caso dello storico Saul Friedländer, nascosto da bambino nel convento di Saint-Béranger a Montlucon, il quale deve trasformarsi da “piccolo pagano” (leggi ebreo) in fervente cristiano. Come lui, migliaia di bimbi ebrei che per sfuggire alle retate naziste devono non solo apparire, ma assumere, un’identità cristiana.
“‘Paul-Henri’. Non riuscivo ad abituarmi a questo nome. A casa, ero stato ‘Pavel’, o piuttosto ‘Pavlicek’, o ancora ‘Gangl’, senza contare una sequela di vezzeggiativi affettuosi. Poi, da Parigi a Néris, ero diventato ‘Paul’, e questo, alle orecchie d’un bambino, suonava pur diverso. Paul, quando io mi sentivo più precisamente Pavlicek; ma Paul-Henri era ancora ben peggio. Avevo attraversato una linea, ero passato dall’altra parte. Paul avrebbe potuto essere un nome ceco ed ebreo, ma Paul-Henri non poteva essere che francese e risolutamente cattolico”.
Così scrive Friedländer nella sua autobiografia A poco a poco il ricordo. Arrivato in Eretz Israel, una volta finita la guerra, il ragazzino diventerà Shaul e infine Saul, “un compromesso fra il ‘Sauel’ che esige il francese e il ‘Paul’ che ero stato”.
Analogamente, i deportati in lager non sono più considerati alla stregua di persone ma di stücke, pezzi, anche attraverso la rimozione del loro nome in cambio di un numero di matricola, e con esso la scomparsa di sé nella disumanizzazione del mondo dei campi: Hurbinek ha tre anni, parla solo per suoni incomprensibili e di lui non si sa nulla, se non che vive solo attraverso il ricordo tramandatoci da Primo Levi in La tregua. Il bimbo muore già dopo la liberazione, “libero ma non redento”, lui come un piccolo Hourban simbolo della duplice distruzione del Tempio e della volontà di concludere il genocidio del popolo ebraico di cui primo artefice fu il Faraone ai tempi di Moshe Rabbenu.
Il rapporto tra nome ed essenza delle cose è tanto importante da essere sancito sin dalla creazione del mondo: racconta un Midrash che Adam ebbe da D-o l’onore di guardare nell’essenza delle creature e quindi di nominarle (Bereshit Rabbà17,4). Nominare è in un certo senso possedere, così come fa il bambino quando inizia a scoprire il mondo attraverso l’apprendimento della parola. Del resto già nel 120 e.c. l’imperatore Adriano, Yimach Shemo, cancellati siano il suo nome e la sua memoria, fa di Gerusalemme la città romana Elia Capitolina: l’assimilazione passa anche da qui. Anche su questo però non tutti sono d’accordo: possedere nominando le cose può essere illusorio, ammonisce Wisława Szymborska in Trzy Slowa Najdziwniejsze (Le tre parole più strane). “Quando pronuncio la parola Futuro / la prima sillaba va già nel passato”.
Concordo con la mia conoscente: il discrimine non è cambiare nome, ma se questo viene scelto od imposto da altri, con la sola eccezione del Signore nei casi illustri che le ho citato: un nome nuovo può ad esempio essere scelto da uno scrittore in cerca di uno pseudonimo di successo. La nostra letteratura non sarebbe la stessa senza Italo Svevo, Alberto Moravia, Umberto Saba, tutti scrittori di provenienza ebraica tra l’altro. Cambiarsi nome è spesso scelto dagli immigrati in un Paese nuovo, i quali semplificano nomi di difficile pronuncia o scelgono nomi più affini alla società in cui entrano per integrarsi meglio: negli Stati Uniti Allen Stewart Königsberg diventa Woody Allen e Melvin Kaminsky si cambia in Mel Brooks; ma anche i nuovi arrivati in Eretz Israellasciano i panni diasporici divenendo, per citarne solo alcuni, da David Grün a David Ben-Gurion, da Moshe Shertok a Moshe Sharett, e non possiamo dimenticare Golda Meir che in realtà è nata Golda Mabovič.
Lo storpiamento o il cambio del nome come imposizione altrui costituiscono persino un opprimente mezzo persecutorio, volto ad insinuare dubbi sulla veridicità di una vita stessa, insiste la mia amica, rammentandomi la vicenda della psicanalista Donatella Levi. La Levi fa presente la drammaticità della perdita del proprio nome nel momento in cui, anche a lei piccolissima, per tentare di sottrarla agli arresti nazifascisti, i genitori decidono di assegnare una falsa identità: “Mi tocca la faccia e mi stropicciai gli occhi, mi toccai anche una gamba; sentii attraverso il mio corpo che almeno io ero rimasta la stessa”. Liliana Treves Alcalay, a soli quattro anni, trova sciocco pensare che sia sufficiente assumere una falsa identità per non essere identificati ed arrestati: “noi rimaniamo gli stessi […] non ci riconoscono dal nome ma dalla faccia”, chiede alla madre.
I nomi, pensa la sua coetanea Donatella Levi, si possono regalare e ricevere, possono essere pericolosi (quelli veri), da ricchi, acquistabili in negozio come giocattoli, possono essere vinti o perduti; si imparano come andando a scuola per salvarsi la vita, e indubbiamente per uscire di casa serve il nome adatto.
Eppure, faccio presente alla mia amica, non è solo D-o a decidere positivamente del cambiamento di un nome: mutare un nome per cambiare un destino, in alcune tradizioni è segulà, un atto spirituale propiziatorio, quando una persona è seriamente malata, quando dopo diversi anni di matrimonio una donna non è riuscita a partorire o per una teshuvah  significativa dopo una lontananza grave.
Lei ha tuttavia ragione, e mantenere un nome con fermezza proprio quando cercano di togliercelo o di mutarcelo è una forma di resistenza, aggiungerei: narra il Midrash cheKadosh Baruch Hu ha deciso di liberare dall’Egitto i Figli di Israele perché in schiavitù prima di tutto non hanno cambiato nome, mantenendo nomi ebraici e con essi la lingua e la non promiscuità sessuale (Vayikrah Rabbà 32,5.).
Chi sono? Chiedeva Aldo Palazzeschi, ma interrogarsi su se stessi è ben altra cosa dalla messa in discussione identitaria instillata da dubbi ed insinuazioni altrui. Non si tratta più delle commedie degli equivoci di Plauto o della commedia nuova menandrea con i suoi doppi e riconoscimenti a lieto fine, ma ci troviamo più vicini al celebre personaggio pirandelliano Mattia Pascal, il quale deve lottare per riavere la propria identità. Dimostrare di essere se stessi non solo come coerenza di vita ma anche come persona. Ma come dice infine la figlia della signora Frola (o la seconda moglie del signor Ponza?) in Così è se vi pare, “Io sono colei che mi si crede”. Aggiunge Lamberto Laudisi, ovvero Luigi Pirandello: “Ed ecco, o signori, come parla la verità! Siete contenti?”

Sara Valentina Di Palma

(5 novembre 2015)