Yitzhak Rabin
Come oramai d’abitudine la ricorrenza di un evento è divenuta l’occasione non solo per un impegno di commemorazione ma anche per una liturgia laica, un esercizio che dà corpo al calendario civile delle democrazie.
Su quanto questo possa concretamente servire non solo ad onorare la memoria di una persona di rilievo pubblico ma anche ad assolvere ad una funzione di pedagogia civile, è difficile dirlo. La discussione, al riguardo, è aperta. Pur tuttavia, non esiste nazione che non cerchi di avere un’idea condivisa – o condivisibile, la qual cosa non corrisponde propriamente alla prima – del proprio passato. Quando essa è soppiantata dai particolarismi dei ricordi, tra di loro in eterno conflitto, dal proliferare di atteggiamenti personalistici o di gruppo, allora il rischio è che alla lunga ciò che è parte di un patto non scritto ma attivo tra i cittadini, si sfaldi o venga di fatto a mancare, fino a mettere in discussione le ragioni stesse della convivenza. Il pluralismo, infatti, si fonda senz’altro sulla differenziazione e sul confronto, ma deve trovare poi dei punti di sintesi. In questo caso, il 4 novembre si è ricordata, anche su queste pagine, la figura di Yitzhak Rabin, assassinato vent’anni prima, mentre partecipava ad una manifestazione per la pace. Gli eventi sono noti e non è certo il caso di ricordarli o ripercorrerli. Piuttosto, al di là del tributo alla persona, come anche al personaggio politico, ciò che ci viene consegnato è l’interrogazione sul suo lascito politico, civile e morale. Plausibile, infatti, il ritenere che la sua morte, per mano di Yigal Amir, costituisca un tornante di lungo periodo nella storia israeliana, prima ancora che in quella del conflitto israelo-palestinese.
Le due traiettorie, peraltro, spesso non coincidono, come invece molto preferiscono credono. Non perché le vicende di una parte non incidano direttamente su quelle dell’altra ma in quanto è abitudine comune perdere di vista quella che è anche la fisionomia autonoma delle due comunità nazionali in campo, la cui identità deriva loro dall’interazione con la controparte ma mantiene, per più aspetti, una rilevante fisionomia a sé stante. In quella d’Israele, quanto conta, oggi l’eredità di Rabin? Difficile dirlo. La sua immagine costituisce senz’altro un capitale morale. Non solo per il modo in cui è morto – in una sorta di campo di battaglia traslato, quello della politica, e per mano non di un ‘nemico’ ma per responsabilità di chi, in quanto connazionale, avrebbe dovuto invece confutarne le idee e l’azione con il ricorso alla politica medesima e non con la violenza – ma anche per l’intero percorso della sua esistenza che, per più aspetti, ricalca moltissimi elementi che sono parte costitutiva dell’ethos nazionale israeliano: ancorato ad una formazione in campo rurale e agricolo, poi militare, combattente e stratega, quindi diplomatico e politico, per molti aspetti fortemente fazionalizzato (la politica israeliana si è sempre misurata più sulla scorta delle spaccature, e delle successive ricomposizioni, che non su unità fittizie, usando il conflitto come motore di evoluzione), in eterna lotta contro il suo antagonista storico, Shimon Peres, assai poco proclive alle concessioni nei confronti del mondo arabo e della componente palestinese, è poi assurto al pantheon degli artefici dei trattati di Oslo e della lunga stagione negoziale, che si è esaurita cinque anni dopo la sua morte. Gli è stato possibile perché, tra le altre cose, essendo considerato, non a torto, uno dei maggiori esponenti della dottrina della sicurezza nazionale, quella che rimanda rinvia alla priorità della difesa di Israele a prescindere da qualsiasi altro ordine di considerazioni, poteva capitalizzare tale status nel momento in cui le trattative con la controparte avevano assunto un carattere non solo più spedito ma anche formalizzato e, quindi, obbligatoriamente esplicitato sul piano pubblico. Su di esse, in realtà già in corso, in forma indiretta, occasionale non meno che riservata, con la seconda metà degli anni Ottanta, Rabin aveva infine buttato il suo peso di garante. La scelta, in tal senso, risale al 1992, ed era il prodotto non solo della sua volontà, che da sé non avrebbe fatto la vera differenza, bensì di una precisa strategia politica dell’allora partito laburista israeliano, che stava ricontrattando i rapporti con l’amministrazione americana mentre, al medesimo tempo, si poneva l’obiettivo interno di sottrarre alla destra il campo d’azione della politica nazionale. L’opzione si rivelò azzeccata, anche se il cammino della negoziazione era così impervio – e le insidie tali da risultare al limite dell’imprevedibilità – da non produrre, alla resa dei conti, i frutti voluti. Rimane il fatto che Rabin si assunse un ruolo tanto ambito, la premiership, quanto ingrato, sancendo, con la sua partecipazione ai round negoziali, la frattura con una componente relativamente minoritaria ma senz’altro agguerrita e determinata della società israeliana, quella che viveva negli insediamenti, così come con un congruo numero di esponenti della destra conservatrice. Una frattura tanto plausibile, poiché di ordine politico, nelle sue premesse, quanto catastrofica nei suoi effetti. Vale la pena ricordare che nei mesi che precedettero il suo assassinio la campagna di opposizione – chi conosce Israele sa benissimo che la dialettica politica assume frequentemente toni e intensità al calor bianco – deragliò, in alcune sue componenti, in una vera e propria prassi quotidiana di diffamazione. Fatto che concorse, tra gli altri, ad isolare non tanto la persona ma la funzione politica. Il tutto all’interno di una sorta di pericolosissimo gioco al rialzo della posta, dove al confronto tematico si sostituiva, passo dopo passo, quello della contrapposizione frontale all’individuo, quest’ultimo caricato di significato che trascendevano qualsiasi residua possibilità di mediazione. Di terrorismo si trattò quindi, nelle sue dinamiche e nei risultati che ne derivarono. Di fatto, con la scomparsa di Rabin, un faticoso capitolo della storia d’Israele si è andato chiudendo. Gli ‘eredi’ non ne sono stati all’altezza o, più prosaicamente, non hanno trovato né cercato le condizioni per proseguire su una strada comunque impervia, se non ai limiti dell’impossibilità. Di quanto lo stesso Rabin fosse scettico, ce lo dicono le cronache dell’epoca, velocemente archiviate sull’altare prima dello sconcerto per il suo assassinio, poi per via della veloce dilapidazione delle opportunità politiche che il partito laburista poteva ancora vantare.
L’anno succesivo, non a caso, dopo un deludente interim assunto da Shimon Peres, fu la volta di Benjamin Netanyahu. Lo è a tutt’oggi. La morte di Rabin segnò per sempre i destini della sinistra israeliana, nella quale lui militava per convinzione ma anche e soprattutto per tradizione. Di fatto nelle date periodizzanti della storia più recente del Paese, il 1967, il 1977, il 1993, si leggono in controluce i percorsi declinanti di quella sinistra moderata, sionista, che aveva dato forma allo Stato e alla comunità nazionale. Ciò che resta di Rabin è quindi la consapevolezza di una lunga stagione storica esauritasi nel corso del tempo. Una sorta di immagine agra e dolce. Il suo assassinio non interrompe un sogno (quello dell’allora ‘campo della pace’), che da altri veniva invece vissuto e rappresentato come un incubo, ma dà una torsione secca alla storia del Paese. Forse non troppo diversamente da ciò che in Italia, fatte le debite proporzioni storiche e politiche, nella stagione del terrorismo diffuso ha costituito l’uccisione di Aldo Moro. Ma di quanto certi singoli episodi possano essere periodizzanti, si può sapere solo a tempo consumato, quando li si osserva con la dovuta distanza e la cognizione del poi.
Claudio Vercelli
(8 novembre 2015)