Roma – A vent’anni dall’assassinio di Rabin
Arafat-Abbas, leader bugiardi
Eitan Haber, portavoce dell’ex Primo ministro israeliano Yitzhak Rabin (1922-1995), sarà protagonista di una serata, organizzata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, al Centro Ebraico Pitigliani di Roma, giovedì 12 novembre (ore 20.30). Un’occasione per discutere e riflettere, a vent’anni di distanza dall’assassinio del premier, in compagnia dei giornalisti Antonio Polito (Corriere della sera) e Anna Momigliano (Rivista Studio).
“L’Autorità palestinese (Ap) si è rivelata un regno virtuale della menzogna, dove ogni funzionario – dal presidente Arafat in giù – passa le sue giornate a mentire a una serie ininterrotta di giornalisti occidentali”. Sono passati dieci anni da quando lo storico israeliano Benny Morris nell’introduzione del suo celebre 1948: Israele e Palestina tra guerra e pace affermava tutta la sua disillusione nei confronti della leadership palestinese. Allora erano gli ultimi giorni di Yasser Arafat alla guida dell’Ap: “l’uomo di cui nessuno si fidava, Rabin in primis”, come lo ha descritto a Pagine Ebraiche un altro noto storico israeliano, Tom Segev, ha lasciato al suo popolo una realtà divisa, conflittuale e senza speranze di pace. A ereditarne lo scettro, a capo dell’Autorità nazionale palestinese, è stato Mahmoud Abbas che ha deciso di proseguire la politica della menzogna denunciata da Morris. Almeno questa è l’opinione di Eitan Haber, l’uomo ombra dell’ex Primo ministro Yitzhak Rabin, che – a vent’anni dall’assassinio del premio Nobel per la pace israeliano per mano di un terrorista ebreo – quando parla di Abbas lo descrive come una “figura tragica” così come un bugiardo. Un giudizio maturato nel corso degli anni e rafforzato dall’ultima ondata di terrorismo palestinese, quella definita come la “rivolta dei coltelli”, che da settimane colpisce civili e soldati israeliani.
“Abbas ci sta ingannando tutti” denunciava Haber dalle colonne del popolare quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth. “Un giorno sostiene la pace. Un altro il terrorismo. – l’accusa dell’ex portavoce di Rabin – È il maestro dell’ammiccamento, quello che noi chiamiamo un doppiogiochista. La mattina dice una cosa e la sera dice il contrario”. Un’affermazione che, riportando le lancette indietro nel tempo, sembra descrivere l’atteggiamento del predecessore del presidente dell’Anp, quell’Yasser Arafat con cui Rabin siglò gli Accordi di Oslo, la base per la realizzazione della soluzione dei due Stati. Proprio mentre le due diplomazie, assieme alla mediazione americana, lavoravano alla definizione dell’intesa, Arafat – siamo nel maggio 1994 – sconcertò la controparte israeliana facendo appello a una “jihad su Gerusalemme”. Un termine ancora oggi spesso usato nel mondo islamico per invocare la guerra santa contro gli infedeli. Arafat si giustificò affermando di aver parlato dal punto di vista religioso e di aver invocato una crociata per la pace. Rabin rispose che quel tipo di affermazioni servivano solo a ostacolare l’impegno per la pace. “Se Arafat vuole siglare una pace storica tra i palestinesi e lo Stato di Israele – ammonì allora il ministro dell’Educazione del governo Rabin Amnon Rubinstein – deve smettere con questi errori, con questi percorsi stupidi e iniziare a parlare come un essere umano”. Ma Arafat, scrive Morris, era un “bugiardo inveterato, di cui non si sono mai fidati né i leader arabi, né i leader israeliani, né quelli americani (anche se si direbbe che sia riuscito ad ingannare parecchi europei)”.
A distanza di due decenni, la storia si ripete e di nuovo la leadership israeliana si trova di fronte a una figura di cui non si fida. Per Haber, Abbas è infatti il nuovo volto dell’ambiguità palestinese. “L’uomo che rappresenta il popolo palestinese viaggia attorno al mondo, visita personaggi influenti, nobiluomini e sovrani, girando per i più lussuosi posti dell’universo, ma ancora non abbiamo capito cosa vuole. Chi sostiene? Cosa sostiene? Vuole che la situazione attuale continui? Sostiene il terrorismo dei coltelli? È contrario?”, gli interrogativi dell’opinionista di Yedioth Ahronoth. “Nel frattempo, (Abbas) sa solo come aprire la bocca e parlare, e ringhiare, la sua bocca fabbrica bugie. E lui, essendo una persona istruita, sa che sono bugie. Eppure accusa gli israeliani di migliaia di cose infondate, e lo fa senza esitazione”. Ancora suona familiare in questo quadro il giudizio di Morris su Arafat, una figura diventata “simbolo delle disgrazie e delle speranze del suo popolo”. Lui, nonostante le chance che gli si presentarono (su tutte, l’accordo offerto dall’ex Premier israeliano Ehud Barak a Camp David nel 2000 che prevedeva, si legge in 1948 “il ritiro israeliano dall’85-91 per cento della West Bank e dal 100 per cento della Striscia di Gaza, l’abbandono della maggior parte degli insediamenti, la sovranità palestinese sui quartieri arabi della zona orientale di Gerusalemme e la nascita di uno Stato palestinese”), non guidò il suo popolo verso la pace. Un percorso su cui sembra essersi indirizzato anche il suo successore. “Un leader debole, a fine mandato, troppo vecchio per lasciare in eredità ai suoi giovani eredi una terra tranquilla e fiorente, anche se questo non è il compimento del suo sogno e del sogno di milioni di palestinesi nei territori, nei paesi arabi e nel mondo”, il duro giudizio su Abbas di Haber, che parla di disillusione quando non disperazione. Eppure forse si può tenere a mente quanto lo stesso ex braccio destro di Rabin dichiarava in un’intervista due anni fa in merito al rapporto tra Rabin e Arafat. “Non ho creduto nemmeno per un secondo che Arafat fosse un partner – dichiarava Haber – e non sono sicuro che Rabin lo credesse. Ma sono sicuro, e lo so perché ne abbiamo parlato, che Rabin credeva che la pace sarebbe stata possibile solo se fatta con tipi come lui. Non posso dire se gli piacesse o meno ma posso confermare che alla fine dei suoi giorni i rapporti tra di loro erano piuttosto buoni”. Abbas sembra un tipo come Arafat. Anche se la sua popolarità è sempre più ridotta.
Daniel Reichel
(10 novembre 2015)