Yitzhak Rabin
A sinistra, l’anniversario della morte di Yitzhak Rabin è servito a commuoversi, certamente, ma anche a mettere sul banco degli imputati Benjamin Netanyahu. In molte delle commemorazioni, infatti, a Bibi è stato imputato il clima di odio in cui maturò l’omicidio e, inoltre, il suo scarso impegno successivo a promuovere il processo di pace.
A destra, queste affermazioni hanno destato costernazione e scandalo: quell’atto efferato non sarebbe riconducibile a nessuna dialettica politica, per quanto aspra, e la colpa del conflitto a bassa intensità sarebbe tutta dei palestinesi.
Questa divaricazione è stata forte in Israele ma ne abbiamo avuto sentore anche dagli interventi pubblicati su questo giornale, spesso polemici tra loro. Può sembrare un segnale di debolezza, che nemmeno di fronte a un enorme dolore si riesca a recuperare l’unità. Ma io penso che non sia così, se i toni si mantengono civili. La tradizione ebraica ci insegna che il modo migliore per onorare qualcuno è studiare, prendere a pretesto il passato per costruire un futuro migliore. Oggi rendere omaggio a Rabin significa dunque analizzare i cambiamenti prodottisi, ciò che è stato e sarebbe potuto essere, i se e i ma, le responsabilità e gli errori, i fallimenti e le prospettive.
Va da sé che non saremo d’accordo. Ma tra una discussione appassionata e un silenzio gravido di rassegnazione scelgo la prima. Ragioniamo quindi sul futuro di Israele, a cui tutti teniamo, provando a scorgere nella parabola epica di Rabin un orizzonte che possa nuovamente unirci. Se lo troveremo – pur se attraverso uno scontro – dovremo ringraziare per l’ennesima volta un grande uomo ammazzato venti anni fa.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas twitter @tobiazevi
(10 novembre 2015)