Qui Roma – Cesare Segre, maestro di stile

Schermata 11-2457339 alle 12.38.01Filologo rivoluzionario; critico letterario che propugnava il ruolo fondamentale del testo in sé, calato nel contesto storico e sociologico; indimenticabile professore: queste sono solo alcune delle tante identità di Cesare Segre, protagonista di un convegno che ha richiamato eminenti studiosi e discepoli all’Accademia dei Lincei di cui fu membro. Scomparso lo scorso anno, il filologo conobbe la persecuzione razziale durante il periodo nazifascista, studiò con Benvenuto Terracini e suo zio Santorre Debenedetti, producendo un’enorme quantità di saggi e scritti sugli autori più disparati, da Ariosto a Primo Levi, con un particolare sguardo alla letteratura spagnola e sud-americana.
A ricordarlo, nel corso di due giornate che hanno preso il titolo “Per Cesare Segre. Gli strumenti della critica” (in richiamo dell’autorevole rivista da lui fondata), il presidente dell’Accademia dei Lincei Alberto Quadrio Curzio, il semiologo Umberto Eco, Roberto Antonelli (Università La Sapienza), Gian Luigi Beccaria (Università di Torino), Alfonso D’Agostino (Università di Milano), Clelia Martignoni (Università di Pavia) e Nicolò Pasero (Università di Genova). Oggi invece si sono confrontati José M. Pozuelo Yvancos (Universidad de Murcia), Philippe Ménard (Université de Paris IV-Sorbonne) e Francisco Rico (Universidad Autònoma de Barcelona).
“Ci sono due ricordi che porto sempre con me quando penso a Cesare – ha introdotto Alberto Quadrio Curzio – il primo risale a quando lo vidi la prima volta. In quella occasione ebbi come la sensazione di conoscerlo da sempre: mi colpì la sua misura e signorilità. Ricordo poi quando inaspettatamente arrivò all’Università Cattolica per assistere alla presentazione di un volume in mio onore e prese posto con una discrezione incredibile”. “Segre – ha concluso – non ha solo scritto saggi su opere letterarie ma anche articoli pubblicati da grandi quotidiani che ritagliavo e conservavo e che evidenziano la sua vocazione per l’incivilimento della società”.
“Cesare Segre, con la sua dedizione spesa sia per la filologia che per la critica – ha preso la parola Umberto Eco – ha prodotto una legione di allievi ideali”. Nella sua carriera si distinse anche come semiologo: “Fu grazie a lui – ha aggiunto – che la disciplina si diffuse. Ricordo che organizzammo il primo congresso di semiotica insieme e fu un successo inaspettato: delle 200 persone attese ne arrivarono 800. Si presentarono studiosi che credevamo morti; si materializzò persino Jacques Lacan. Per capire a fondo la sua posizione devo però devo accennare ad uno dei padri di un filone della semiotica: Julien Greimas. Greimas sosteneva un percorso generativo che implicava una struttura immanente rispetto al testo. Un modello secondo cui però paradossalmente si potrebbero sovrapporre I Promessi Sposi con un fumetto di Topolino. Segre non credeva a un intreccio preesistente al discorso ma prendeva in esame il testo. Non considerava una struttura universale, voleva prima avere un confronto diretto con il testo”.
“La ricerca di Cesare Segre – aggiunge Roberto Antonelli – spaziò dalla filologia alla critica. Da segnalare il suo continuo confronto con le opere straniere e l’avvicinamento alle teorie letterarie di Bachtin e Lotman che ebbe il merito di diffondere in Italia. Lo studioso voleva conciliare accademia e militanza, antico e moderno e poneva al punto di partenza sempre il testo. Si distinse per la sua etica e la sua morale e, in un certo senso, fu un grande illuminista”.
“Provo una certa commozione a rievocare un maestro e amico fraterno – interviene Gian Luigi Beccaria – Quando parlava della sua vocazione, Segre spiegava di essere un bigamo, con una moglie ufficiale, la filologia, e un’altra compagna, la critica. Ma era un poligamo sincronico perché applicava le due dottrine in contemporanea puntando ad essere massimamente obbiettivo; la filologia ha tenuto saldamente a bada la tendenza della critica a seguire mode e disperdere i pensieri”. “Secondo lui – ha quindi sottolineato – esistevano il critico cuculo ovvero invidioso dell’opera dello scrittore, il critico pavone che declassa un’opera per sfoggiare la sua arte e quello camaleonte che nel giudicare un testo ne imita lo stile. Per lui il testo va rispettato nella sua autonomia e allo stesso tempo non va considerato una monade ma giudicato alla luce di altri testi e di una tradizione”. Ad illustrare il lavoro prettamente filologico è poi Alfonso D’Agostino: “Segre era poliedrico e versatile, un uomo curioso, parafrasando la sua autobiografia. La sua ampiezza di orizzonti non aveva rivali e la sua acribia richiamava le doti di un filosofo di antica memoria. Avere una conversazione con lui era sempre un arricchimento”. Analizzando il lavoro filologico fatto da Segre sulle Satire di Ariosto, D’Agostino aggiunge: “La sua professionalità era in bilico tra prudenza e obbligo di correggere”.
La curiosità è stata la dote che ha permesso a Cesare Segre di fare salti temporali incredibili, contrassegnandolo anche come grande critico della letteratura del Novecento, ha spiegato Clelia Martignoni: “Il suo è un orizzonte complesso e vario. Una sorta di malinconico inappagamento spiega l’estensione e le continue progressioni dei suoi studi. Ha preso in analisi il poeta Virgilio Giotti, Bacchelli, ma anche Machado, Sklovskij, Garcia Marquez e Beckett. Solo in età avanzata ha cominciato però ad occuparsi della letteratura della Shoah: in Per curiosità affronta il trauma della Guerra, cinque tra zii e cugini furono deportati ad Auschwitz. La sua è una testimonianza civile, testimonianza di cui riesce a parlare solo negli anni ’80”. A concludere la sessione, il suo alunno Nicolò Pasero: “In definitiva per Segre contava la centralità della persona umana sia a livello tecnico che etico. Il testo era inteso come la realizzazione prodotta da un uomo”.

Rachel Silvera twitter @rsilveramoked

(12 novembre 2015)