Segnali di odio

Sara Valentina Di PalmaNel sottile ordito che tiene insieme i molti fili della vita, di recente mi è venuto in mente un libro bellissimo e commovente, da leggere e magari anche rileggere almeno una volta (ma quanti lo meriterebbero, oltre a quelli ancora da aprire, non basterebbe una vita!: Spingendo la notte più in là (Mondadori editore), dell’attuale direttore de La Stampa, Mario Calabresi. Si tratta di una testimonianza sulle vittime del terrorismo in Italia, scritta dal figlio del commissario Luigi Calabresi, assassinato nel 1972 su indicazione dell’estrema sinistra extraparlamentare di Lotta continua, dopo una aggressiva campagna mediatica di denuncia per la presunta responsabilità di Calabresi nella morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli.

L’omicidio Calabresi fu reso possibile, avallato e preparato grazie ad un clima di odio crescente (non dissimile da quello che, seppure in un contesto completamente diverso, colpì Yitzhak Rabin nel 1995, ‘colpevole’ del ‘tradimento’ per gli accordi di pace con Yasser Arafat). Questo assassinio politico lasciò una vedova incinta del terzo figlio e due bambini piccoli – ulteriore ragione forse della mia empatia per la vicenda raccontata dal figlio Mario. Tanti sono i temi che si intrecciano: il libro di Mario Calabresi è stato trasposto in forma teatrale con la partecipazione di Luca Zingaretti, attore mostratosi più volte attento a temi civili, e Mario sposando la nipote di Natalia Ginzburg è entrato a far parte anche di questo nostro lessico famigliare. Un po’ per tutte queste ragioni, il giornale da lui diretto è a mio avviso uno dei più leggibili nel panorama italiano, e ne rintraccio spesso con gratitudine una sottile attenzione lessicale nella denuncia delle violenze palestinesi di questi ultimi giorni.

La Stampa ha riportato il 3 novembre scorso una notizia che lascia sgomenti: il comandante del Reparto Investigazioni Scientifiche dei Carabinieri ha ammesso, in sede processuale per il caso dell’assassinio di Yara Gambirasio, che il video con il furgone bianco dell’imputato Massimo Bossetti, in transito davanti alla palestra della vittima, agli atti processuali stranamente non c’è, o meglio non tanto stranamente, dato che i Ris lo hanno confezionato ad uso mediatico. Quel video, visto da noi tutti (anche i fortunati sprovvisti di televisore, ma all’epoca era in ogni bar e ristorante di questo Paese), è insomma un falso: solo una telecamera delle cinque utilizzate per montare il filmato fornirebbe un’identificazione probabile, mentre le altre, secondo i carabinieri del Ros, rivestono solo un interesse statistico: furgoni simili in quella zona e a quell’ora, riferisce La stampa, difficile ce ne fossero, ma ciò è ben diverso da dire in tutte le case d’Italia che quel furgone è stato identificato da cinque telecamere.

Dal telefilm statunitense CSI Crime Scene Investigation al nostrano R.I.S. Delitti imperfetti, eravamo sicuri della razionale infallibilità scientifica delle indagini sulle scene del delitto, ma a rendere ancora più inquietante l’accaduto è la motivazione del falso: “forti pressioni mediatiche, esigenze di comunicazione”. Far vedere, insomma, quello che l’opinione pubblica si aspettava di vedere (inficiando ora così la credibilità generale dell’operato del RIS e mettendo in dubbio la validità del processo, insomma dare una mano all’incriminazione di Bossetti e rischiare ora di ottenere l’effetto contrario).

Vicende non troppo dissimili mi turbavano già quasi quattro anni or sono nel precipitarmi in macchina, insieme a due correligionarie e l’ovetto contenente il mio terzogenito di sette mesi, in una cittadina lontana quattrocento chilometri ad ascoltare un testimone della Shoah su cui mi era stato chiesto un parere.

Mi occupavo di infanzia e Shoah, avevo letto testimonianze ed intervistato sopravvissuti i quali all’epoca del genocidio erano bambini. Il signore che mi appariva davanti era un vecchietto la cui testimonianza ha mosso alle lacrime diverse persone presenti tra il pubblico, durante un incontro di commemorazione serale tra le nebbie nordiche, in occasione del Giorno della Memoria. Già quando diciassette anni prima Binjamin Wilkomirski aveva commosso il mondo (ricordo una recensione entusiasta del mio Professore e Maestro all’Università in merito) pubblicando Frantumi, non avrei mai pensato di trovarmi davanti, invece dell’autobiografia sull’infanzia di un bambino ebreo perseguitato e rinchiuso a Majdanek, un falso. Ma un falso può essere possibile se vi sono persone disposte a crederlo vero, e le persone possono essere disposte a crederlo vero se esso è verosimile, plausibile, vicino ad altre realtà conosciute.

Come dire che Wilkomirski sapeva scrivere di bambini nella Shoah non per averlo vissuto, ma per aver ben letto ed introiettato le nozioni emotive sulla vita dei bambini nei lager, ed il grande pubblico era disposto a credergli per aver a sua volta in comune con lui un linguaggio emotivo la cui alfabetizzazione era iniziata, credo, nel 1993 con Schindler’s List di Steven Spielberg e la bambina con il cappotto rosso (non scrivo volutamente ‘cappottino’, diminutivo-vezzeggiativo atto a muovere coinvolgimento emotivo).

Sembra molto più vicino, ora, quel 2010 in cui Umberto Eco, intervistato da Claudio Magris per il Corriere della Sera a proposito del suo ultimo romanzo Il cimitero di Praga, aveva ricordato come la gente creda a quello di cui ha già sentito “affabulare”: per falsificare la realtà bisogna partire da qualcosa che tutti conoscono o credono di conoscere. O in cui si vogliono identificare.

Sara Valentina Di Palma

(12 novembre 2015)