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Penso che le istituzioni che funzionano vadano valorizzate. Una di queste è senza dubbio la Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano (CDEC) che ha appena realizzato in collaborazione con il Museo Ebraico di Bologna una mostra fotografica sulla Grande guerra e gli ebrei in Italia. A questo proposito vorrei ragionare su due questioni, una relativa al lavoro della Fondazione e una più legata all’opportunità storiografica di realizzare una mostra simile.
La prima: il CDEC è nato (a Venezia, per poi trasferirsi a Milano) nel secondo dopoguerra con l’intento di raccogliere documenti e testimonianze sullo sterminio degli ebrei italiani. Ne ha fatto il suo cavallo di battaglia per decenni, ma è maturato nel corso del tempo diventando a tutti gli effetti un importante punto di riferimento per gli studi sulla presenza ebraica nell’età contemporanea. La realizzazione della mostra su ebrei e Grande guerra è solo l’ultima prova dell’allargamento degli interessi dei ricercatori della Fondazione, impegnati a vasto raggio nel campo della storiografia (con la rivista online Quest), nella conservazione di materiale audio e video, nella riflessione sulla museificazione dell’ebraismo, nella documentazione sull’antisemitismo contemporaneo, nella didattica della Shoah (e tante altre dinamiche che invito il lettore a seguire in rete). Credo che vada sottolineato il fatto che non è per nulla scontato che una realtà del genere esista: è il frutto del lavoro di tanti, e di una volontà istituzionale precisa (sia ebraica che nazionale). Un presidio di civiltà e conoscenza che aiuta la società europea a crescere, e che va difeso e implementato.
La seconda considerazione va fatta sulla mostra dedicata agli ebrei nella prima guerra mondiale. A guardare le belle foto raccolte e proposte al visitatore, a prima vista non si capisce la ragione per una mostra simile. Se non ci venisse detto che quel soldato o quella crocerossina sono ebrei, noi vedremmo solo semplici protagonisti italiani di un’esperienza tragica e grandiosa che ha coinvolto l’Europa trascinandola in un buco nero. Ma se guardiamo il tutto da una prospettiva storiografica diversa credo che invece fare una mostra del genere sia stato importante. Innanzitutto ci aiuta a ragionare sul fatto che la Grande guerra è stata il punto di approdo del processo di emancipazione degli ebrei italiani: proprio la difficoltà di riconoscerli nelle foto come ebrei (e tanta documentazione conferma questa ipotesi) ci dice che gli ebrei vissero quella guerra come la definitiva opportunità di affermare la propria cittadinanza italiana. Si potrebbe parlare di culmine dell’emancipazione, se non fosse che poi guardando i pannelli della mostra dedicati agli ebrei combattenti di guerra che erano poi morti nella Shoah si scopre che quella emancipazione, quel modello di emancipazione, era un falso modello, un’illusione che la storiografia si è da tempo incaricata di mettere in discussione. Ma l’opportunità di questa mostra risiede anche in altre motivazioni: la Grande guerra fu la prima gigantesca esperienza di massa collettiva che coinvolse anche gli ebrei di tutta Europa, come combattenti, come profughi o come semplici cittadini. Le mostre analoghe realizzate a Londra, a Vienna e Berlino (che parlano di realtà demografiche molto più consistenti di quella italiana) ci dicono quanto sia centrata la scelta di realizzare una mostra anche sulla realtà nostrana. La stessa opportunità che riguarda la riflessione sull’innesco dei nuovi nazionalismi durante la guerra, un percorso che vide ebrei esprimere nel medesimo contesto un forte afflato patriottico italiano e un altrettanto esplicito desiderio di rinascita per la nazione ebraica in Palestina, rafforzato dalla Dichiarazione Balfour che proprio durante il conflitto indicò la via di un percorso che si dimostrò poi assai lungo e complesso. Una buona mostra, quindi, semplice quanto basta, ma sufficiente per attivare riflessioni valide anche per la nostra contemporaneità.
Gadi Luzzatto Voghera
(13 novembre 2015)