Rabbia
Che incubo questo tempo che non scorre, si impiglia, sembra tornare indietro e ci trascina indietro con lui. Non avevamo ancora finito, commemorando Rabin, di rivivere l’atmosfera del 1995 e di colpo veniamo catapultati ancora più indietro, fino al 1982: lo sgomento di leggere accanto a notizie di ebrei colpiti in quanto ebrei nomi italiani di luoghi italiani che conosciamo bene; i dubbi su cosa sia o non sia opportuno fare per continuare la nostra vita ebraica come sempre in tranquillità e sicurezza; la necessità di analizzare, interpretare, discutere, spesso incalzati dai media non ebraici. Non so se sia corretto parlare di paura: sappiamo benissimo – non lo stiamo scoprendo adesso – che essere ebrei è pericoloso, anche in Italia. Più che di paura parlerei di rabbia: rabbia perché qualcuno ha deciso di tracciare con la violenza una linea di demarcazione tra noi e gli altri; rabbia per un’agenda che ci viene dettata dall’esterno, rabbia per non poter scegliere liberamente come vivere la nostra vita ebraica, di quali temi parlare, quali argomenti trattare nei nostri giornali e nelle nostre newsletter. Ma se chi voleva incutere terrore in realtà suscita rabbia questo significa che, almeno in parte, ha sbagliato i suoi calcoli.
Anna Segre
(13 novembre 2015)