Come lo diciamo ai bambini?
E adesso, come lo diciamo ai bambini? Come si può parlare ai piccoli, come dire quello che sta succedendo, come raccontare quello che già è successo? È questo un altro elemento da prendere in considerazione nel turbinare di pensieri, notizie, immagini che si affollano in questo fine settimana di straniamento e di dolore. Esposti al turbamento degli adulti, intanto, e spesso anche al rincorrersi di telefonate, messaggi, scambi che magari si interrompono al loro entrare nella stanza. Bambini che hanno in casa una televisione che propone immagini orribili a tutte le ore, che sentono i discorsi degli adulti, magari anche solo a brandelli, che si accorgono che i giornali vengono fatti sparire… È tutto un rincorrersi di notizie, e fra i tanti messaggi gira anche la preoccupazione dei genitori, che spesso non si sentono attrezzati per far fronte alle domande di bambini. Un problema sentito al punto che Le Parisien, quotidiano francese di grandissima tiratura, ha pubblicato in tempi brevissimi un articolo intitolato proprio “Attentats de Paris : comment en parler aux enfants”, Attentati di Parigi, come parlarne ai bambini. Un articolo molto ripreso, e che non è l’unico tentativo di aiutare gli adulti in un compito delicato quanto importante. Particolarmente rilevante per i bambini che vivono a Parigi, che si sono svegliati sabato in una città traumatizzata in cui sicuramente non sarà semplice vivere serenamente per lo meno nei prossimi giorni, il problema però si pone ovunque. Le Monde – di cui riprendiamo l’immagine, scattata da Dmitri Lovetsky – ha preparato una sorta di piccolo prontuario con le domande più frequenti, a cui risponde lo psicologo Jean-Luc Aubert. E anche il Time ha pubblicato un articolo che porta come sottotitolo “Don’t dismiss their fears, but be reassuring”, ossia Non sminuite le loro paure, ma siate rassicuranti. Ed è proprio in questo modo che gli esperti consigliano di affrontare il problema, ovviamente con un approccio differenziato a seconda dell’età. Con una raccomandazione forte: non esponeteli alle immagini che passano in televisione. Geneviève Djenati, psicologa parigina specializzata in terapie familiari, sottolinea l’importanza della parola, primo tramite per raggiungere i bambini. Ricordando anche che per i piccoli la distanza non è così rilevante come per gli adulti, soprattutto in situazioni estreme, quando per loro tutto è vicino, immediato, importante. E così, come sono stati tanti i piccoli francesi che dopo l’attacco al World Trade Center di New York nel 2011 le hanno espresso la paura e la sensazione che sarebbe presto caduta anche la Tour Eiffel, non si può dare per scontato che vivere in Italia basti a proteggere un bimbo dal timore e dalla preoccupazione. Soprattutto perché le antenne dei piccoli sono forse più sensibili delle nostre, e sono state sicuramente tante le piccole voci che già poche ore dopo gli attentati hanno chiesto si propri genitori il perché delle facce scure, dell’umor nero e dell’aria preoccupata
Ed è una lezione che – ricordano in particolare i giornali francesi – deriva anche dall’esperienza fatta a gennaio di quest’anno, dopo gli attentati a Parigi: non bisogna assolutamente nascondere fatti simili ai bambini. Che oltretutto lunedì si troveranno a parlarne a scuola. Auspicabilmente nel quadro di un lavoro preparato dai loro insegnanti, ma sicuramente, anche, fra compagni, in classe. Che fare, allora? Innanzitutto farsi guidare dai bambini stessi, cercando di rispondere alle loro domande, ai loro dubbi, scandagliando il più a fondo possibile le loro paure, perché non restino inespresse. Usare parole semplici, senza nascondere che è successo qualcosa di grave e, soprattutto, dire la verità. Evitare di lasciar passare troppo tempo, perché nel vuoto di informazioni è facile crearsi scenari ancora più spettacolari e quindi più spaventosi, e, non guasta ripeterlo, raccontare la verità. Scegliere accuratamente le parole, cercare di essere il più sobri possibili, ma non nascondere che sono morti in tanti, cercando di non fare numeri esatti, di non dare dettagli sulla violenza, sul panico, né sugli attacchi suicidi. E una lezione di geopolitica è assolutamente prematura prima degli otto – dieci anni, quando jihadisti e Isis sono concetti che potrebbero portare solo a un carico di preoccupazione e ansia non gestibile. È invece fondamentale dire che i responsabili delle azioni sono morti, e che i feriti sono ben curati, e in via di guarigione. I più grandi probabilmente chiederanno perché Parigi, perché la Francia, e a loro, come anche ai più piccoli, pur se in maniera più sfumata, si può dire che l’obiettivo è di far paura, e di imporre le proprie idee. È allora importante raccontare anche della voglia di reagire, della speranza, e magari di come in molti si siano riversati nelle strade cantando la Marsigliese. Che era un canto rivoluzionario, poi adottato come inno nazionale e la cui melodia, peraltro, è dell’italiano Giovanni Battista Viotti, nato a Fontanetto Po e musicista di corte a Parigi. I più grandi sono probabilmente pronti ad affrontare il tema della libertà d’espressione, ma la cosa più importante con i ragazzi di tutte le età è la capacità degli adulti di ascoltare, di prestare attenzione a quelli che sono i loro dubbi, le loro curiosità, e soprattutto le loro paure. Aiutarli a fare domande, a esprimere quello che li turba, e non aver paura di parlare. Mostrare di essere in grado di garantire la loro sicurezza e non cambiare comportamento, non chiudersi in casa. Insegnare loro a fare attenzione, ma rassicurarli, sostenerli nella necessità di capire senza però sottolineare gli aspetti più drammatici, e dare un nome alle cose, e anche alle persone, per evitare che diventino fantasmi, ancora più spaventosi.
L’istinto immediato di tutti i genitori è di proteggere i propri cuccioli in questo caso deve essere temperato, e controllato, senza dimenticare che il regalo più grande che si può fare a un bambino in qualsiasi situazione difficile è di essere disponibili. Secondo Harold Koplewicz, presidente del Child Mind Insitute, ente americano che si occupa della salute mentale dell’infanzia, è importante fidarsi del proprio istinto, senza dimenticare che ogni bambino è diverso, sia per la sua propensione all’ansia che per la sua capacità di gestire le notizie negative. È possibile anche una reazione di apparente indifferenza, ma si tratta in genere solo di un modo per gestire qualcosa che spaventa, alcuni potrebbero desiderare compagnie, altri di passare del tempo da soli, soprattutto i più grandi. È bene sottolineare come sia del tutto normale che ognuno di noi reagisca in maniera differente: si può essere molto tristi senza piangere, per esempio. E lo sicologo Paul Coleman insiste sull’importanza di lasciarsi guidare dalle richieste dei bambini, proponendo anche un acronimo che può aiutare a strutturare un discorso: SAFE. S come Search, cercate di capire quali sono le domande o le paure che magari non riescono ad esprimere, per non rischiare di ignorare una preoccupazione profonda ma magari inespressa. A per Act, azione, nel senso di fare attenzione a non modificare le proprie abitudini, che sono comunque e sempre rassicuranti. Anche spingerli a fare qualcosa per aiutare gli altri, può essere utile: piccole azioni che li facciano sentire utili, che sottolineino l’importanza di essere gentili, generosi, attenti. La F sta invece per Feelings: i loro sentimenti vanno accettati, compresi, mai sottostimati. E, soprattutto, la E di Ease their minds, riporta all’idea di partenza: vanno comunque rassicurati, per quanto sia difficile. E la cosa principale resta dedicare loro del tempo, e attenzione, e ascolto. Il semplice fatto di passare del tempo con loro ha un effetto più rassicurante di molte parole. Che però non possono essere evitate, oggi.
Niente tabù, come consiglia anche la psicoterapeuta Hélène Roman, spiecializzata in gestione dei traumi, neppure nell’uso delle parole. Parlare di “Guerra” può far capire meglio perché un utilizzo di armi così massiccio, mentre invece trattare gli attentatori da “folli” rischia di creare confusione, magari con il signore un poco borderline che la sera si mette a urlare per strada, soprattutto se ha bevuto un po’ troppo. Inutile portarli ad aver paura di tutti. Meglio aiutarli ad essere un po’ più consapevoli. Ma senza smettere di vivere, anche gioiosamente. Esattamente come dovremmo cercare di fare noi adulti.
Ada Treves twitter @atrevesmoked
(15 novembre 2015)