La tolleranza e l’impotenza
In un qualche posto del nostro Paese, ovvero in una sua scuola, segnatamente definita dell’«obbligo», una struttura collegiale di gestione interna, il consiglio interclasse delle terze elementari – anche per chi pratica d’abitudine le patrie istituzioni scolastiche, il districarsi nella loro burocrazia e nelle ramificazioni assembleari non sempre è agevole, divenendo fonte di infinite sorprese – delibera l’inopportunità di una gita d’istruzione ad una mostra di dipinti, la “Bellezza Divina”, nella quale sono esposte un grande numero di bellissime opere, capolavori e incanti del nostro tempo, della più diversa provenienza, dedicate al rapporto tra arte, sacralità e rappresentazione della sfera spirituale.
Non c’è bisogno di tornare ad essere bambini, né l’essere stati genitori o insegnanti, per sapere che le arti visive hanno un fortissimo impatto sulla fantasia dei più giovani, costituendo un moltiplicatore di suggestioni, di idee e di opportunità espressive. In poche parole, l’arte è uno strumento dell’intelligenza creativa. L’artista, d’altro caso, dà sempre corpo all’infante che porta in sé e che riproduce indefinitamente, con il suo tratto peculiare, sulla tela medesima. Del pari, ogni osservatore, a partire dal più piccolo, a modo proprio, vedendo la raffigurazione artistica, ne assorbe non tanto astratti significati bensì concrete impressioni. Che poi provvede a rielaborare. Bene, detto questo, rimane la motivazione del divieto di cui si diceva in esordio. Poiché la ricca esibizione, a detta dei perplessi censori, sarebbe in sé inadatta in virtù proprio del suo tema di fondo, e di ciò che quindi vi è contenuto: il sacro e le sue raffigurazioni.
Lo sarebbe nei confronti di quella parte delle scolaresche (utenza scolastica? Alunni dell’obbligo? Giovanissimi studenti? Come definirli in maniera univoca, al di là del ritualistico linguaggio burocratico delle circolari interne, che anestetizza e reifica tutto e tutti?) che appartiene a fedi (si deve scrivere così?) diverse da quella della maggioranza degli italiani autoctoni. Più esattamente, rifacendosi al verbale che raccoglie la deliberazione, riportato da alcuni quotidiani, “la visita è stata annullata per tutte le terze per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra”. La visione di quadri come la Pietà di Van Gogh, l’Angelus di Millet, la Crocifissione di Guttuso, il capolavoro di Chagall, a sua volta dedicato alla Crocifissione bianca, e cento altri costituirebbe quindi, lo ripetiamo, un’offesa, quanto meno in ipotesi e in potenza, alla “sensibilità delle famiglie non cattoliche”.
Questo è ciò che le cronache ci consegnano, accogliendole per parte nostra con la dovuta circospezione del caso. Rimane il fatto che non sarebbe il primo episodio che vede la scuola italiana – altrimenti luogo per eccellenza di integrazione e di costruzione di cittadinanza inclusiva – optare per la scorciatoia offerta dall’astenersi da qualsiasi azione, laddove viene posta dinanzi al bivio tra gestione razionale del conflitto culturale e fuga in avanti. In tale modo censurando o, più banalmente, evitando, il confronto. Con il risultato, tuttavia, che in casi come questo il secondo percorso è di per sé una scelta, basata sulla mancanza di assunzione di responsabilità. Inutile fare la facile predica a terzi, quando non si è diretti protagonisti dei fatti. Ma è altrettanto impossibile l’astenersi dal manifestare un’opinione al riguardo. Poiché nel microcosmo di una decisione si riflette il disagio e lo smarrimento di una collettività che va ben oltre gli allievi, le famiglie, i docenti e gli operatori tecnici di una scuola o di un consorzio didattico. L’incapacità di integrare senza correre il rischio di ‘dis-integrarsi’, ossia evitando di venire meno alla propria storia culturale, è la proiezione di un’afasia collettiva alla quale si accompagna la fuga dalle responsabilità. Il rimando all’altrui ‘sensibilità’, in casi come questo, ha il senso, lo spessore e la natura di una foglia di fico, anzitempo seccata e impietosamente incartapecoritasi.
Non esiste un’autentica società multiculturale – e l’Italia da tempo si è incamminata, in via di fatto, verso questo orizzonte, piaccia o meno – qualora essa non sappia confrontarsi non solo con la nozione di diversità ma anche con la legittima prassi delle maggioranze. Detto in altre parole, il fuoco dell’integrazione sta senz’altro nello scambio tra storie distinte, ma a regole vigenti e non in base a deroghe di circostanza e concessioni tartufesche, non importa anche se solo occasionali. Con un accento di fondo, ossia quello per cui le medesime regole si mantengono. Regole non solo di ordine giuridico ma anche e soprattutto di buon senso. Il quale, quando invece subentra la fragilità del pensiero, la debolezza delle funzioni e dei ruoli, l’incomprensione del fatto che la costruzione di un mosaico di identità se non può sopprimere quelle altrui deve tuttavia valorizzare anche le proprie, rischia di tracollare. Non facciamo la morale ma, del pari, non facciamoci fare la morale. Una società dove debbano coesistere culture e storie diverse abbisogna di un tessuto connettivo comune. Non è quello dato dalla concessione, intesa come surroga dal regime di ragionevoli obblighi esistenti per tutti. Poiché se ci si incammina su questa strada, allora il declino è pressoché certo. Il pluralismo non ha nulla a che fare con il relativismo, tanto più quando questo diventa una resa ad una qualche minoranza o, più propriamente, alla fantasia di identità e di potenza che ci si fa d’essa. Relativismo degli uni e fondamentalismo degli altri vanno peraltro a braccetto, alimentandosi vicendevolmente. Come la trasformazione migratoria e demografica in atto non si ferma con i muri così non la si affronta con ponti fatti d’argilla. Nel primo caso sono destinati a cadere rovinosamente sotto l’altrui pressione; nel secondo, a crollare catastroficamente in quanto esercizio di inettitudine camuffata come comprensione. L’Italia sconta, in tutta probabilità, molti limiti strutturali, tra i quali il suo pervicace individualismo, un diffuso familismo che ci proietta più verso i regimi mediterranei che non nei confronti di altre sponde, soprattutto una debolezza congenita di quello spirito pubblico che è invece una risorsa fondamentale nell’affrontare le prove dettate dal mutamento in corso. Che tutto ciò possa divenire, non importa quanto consapevolmente o meno, il retroterra ideologico per legittimare la cessione come se si trattasse di una apertura di credito, è solo il segno della inconsistenza di chi manifesta, in tal modo, di non avere nessuna linea di credito a sua disposizione. Non è tolleranza, è impotenza. Punto e basta.
Claudio Vercelli
(15 novembre 2015)