Scrittorincittà – Essere Dispari, con orgoglio
Incuriosisce già dal tema scelto per questa diciassettesima edizione, “scrittorincittà”, il festival che ha in questi giorni portato a Cuneo quasi quarantamila persone, a cui si sono aggiunti tantissimi studenti che hanno partecipato alle decine di incontri organizzati per le scuole di ogni ordine e grado, a partire dalla lezione di Claudio Magris che nel primo giorno del festival si è rivolto, al Teatro Toselli, a una platea gremita di liceali, prima di incontrare, la sera stessa, il grande pubblico del festival.
D15PARI, infatti, a partire dal modo in cui è scritto ovunque, dal programma agli striscioni, incuriosisce e obbliga a pensare: anno dispari, edizione dispari, un’idea prima ancora che un programma. Il programma parla di uno squilibrio, che sbilancia verso l’altro, o verso noi stessi. “Siamo pronti a cambiare? C’é una nuova identità sulla quale riflettere?”. Un contesto in cui Pagine Ebraiche è stato accolto con interesse e curiosità, con le centinaia di copie distribuite dall’organizzazione che sono rapidamente sparite, segno di un interesse che è stato palpabile, e di una vicinanza particolarmente sentita in una città in cui è forte da sempre il radicamento ebraico.
Dispari vuole essere un’idea di futuro, un progetto, un modo di guardare il mondo, un segno di fragilità, precarietà, voglia di interrogarsi ma anche di costruire, come ha fatto Alberto Cavaglion, con la Biblioteca di Barbamadiu, il nuovo centro di studi fondato in nome del fratello Davide, di cui sia Pagine Ebraiche che questa newsletter molto hanno parlato.
Non è stato certamente facile proseguire in questo fine settimana terribile con la programmazione di quella che da anni è una festa per la città, e al Teatro Toselli gli scrittori francesi presenti al festival hanno deciso di presentare un testo scritto per l’occasione, accompagnato dalle note di Bach, fra dolore, dignità e responsabilità civile.
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Non luogo a procedere
“La mania è una corazza”
“Non dire solo quello che è successo, ma come e perché”. Queste le parole con cui lo scrittore e germanista Claudio Magris spiega ciò che l’ha indotto a scrivere il suo ultimo libro, Non luogo a procedere, il suo più alto successo letterario recentemente pubblicato da Garzanti.
La narrazione è quella di una storia vera, quella di Diego de Henriquez ambiguo collezionista con un’ossessione per le reliquie di guerra, raccolte ora nel suo “Museo della Guerra per la Pace” di Trieste, e di Luisa de Navarrete, il personaggio inventato ma vero protagonista del racconto capace di restituire umanità alla storia, grazie alla sua personale narrazione. Ed è nella prima serata della diciassettesima edizione del festival “scrittorincittà” che al Teatro Toselli Magris era in dialogo con Ermanno Paccagnini, docente di lettere alla Cattolica di Milano e noto critico letterario.
Lo scrittore, già premiato nel 2009 a Francoforte col Friedenspreis (Premio Internazionale per la Pace degli Editori Tedeschi), segue le orme di de Henriquez per raccontare la sua ricerca, di armamenti militari prima, e di nomi incisi sui muri della Risiera di San Sabba, a Trieste, poi. Un passaggio simbolico dall’impersonale mania per la guerra a una ricerca, più umana, delle sue vittime, o forse dei collaborazionisti i cui nomi erano stati incisi sui muri. La Risiera si aggira come un Minotauro nel labirinto della narrazione, in mezzo alla riflessione sul valore della parola intesa come arma o strumento e del silenzio della stessa. Magris racconta di personaggi quali Lecher, il carnefice del campo, che riuscì a passare molti anni a Trieste nonostante i suoi crimini, grazie al silenzio dell’opinione pubblica, o di Reyner e del suo discorso nel castello di Miramare, sulla soglia del delirio e della fantasia, in un’incitazione a “combattere la marea rosso-slava”, rivolta agli unici disposti a prestargli attenzione: i collaborazionisti sloveni, croati e serbi.
Una serata di riflessione, quindi, sull’uso della parola. Sul suo silenzio, sulla storia di oggetti, tra nomi e significati. Le domande puntuali di Paccagnini hanno accompagnato Magris nel tracciare un utile affresco del suo ultimo libro, certamente stimolante anche per chi non l’abbia ancora letto. Perché, come ha concluso lo scrittore, “La mania è come una corazza, l’ossessione ci protegge e ci illude di non essere feriti”.
Emanuele Levi
Nella casa dei libri ebraici
“Ci fu un tempo in cui i libri erano più importanti dell’esperienza per la cultura”. Questo l’esordio di Piero Stefani, docente di filosofia della religione all’Università di Ferrara ed Ebraismo alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano, per l’incontro “Nella casa dei libri ebraici” dedicato alla Biblioteca di Barbamadiu. Alberto Cavaglion, infatti, ha letteralmente fatto risorgere dalle ceneri la “scola” di Cuneo ed è stato impegnato con Piero Stefani – nell’ambito della manifestazione “Scrittorincittà” in una discussione sul valore e il significato di libro e di lettura. Il testo cartaceo raccontato nella sua evoluzione storica, da “archivio di verità” nel medioevo (pensando ad Aristotele per la fisica, Tolomeo per l’Astronomia e Galeno per la Medicina) a mediatore, attuale, della riflessione individuale. Il libro contemporaneo quale strumento capace di trasmetterci “giorni passati senza averli vissuti”, per citare Marcel Proust, e come oggetto intimo, non più soggetto a lettura o derashà collettiva.
La riflessione di Stefani è proseguita sulla Torah, o libro dei libri, citando l’epilogo del Qohelet “Oltre a ciò figlio mio stai in guardia, non si finisce mai di scrivere libri in gran copia (…) e il molto studio affatica le nostre deboli forze”. Non si deve mai finire di produrre, secondo l’interpretazione di Stefani, ma il rischio nascente è quello di un eccesso di notizia che finisce per portare il lettore al distacco, alla stanchezza o a un attaccamento patologico all’informazione. Cosa che rischia di sminuire il valore della lettura stessa, del libro e dei libri, che soprattutto per quanto riguarda il popolo ebraico risultano essere al centro stesso del nostro DNA culturale. La somiglianza non è solo concettuale, ma quasi biologica. I Sefer Torah custoditi nell’Aron sono muti, senza vocali, protetti e silenziosi come il codice genetico che teniamo nei nostri nuclei e attendono solo l’attimo della lettura e della trasmissione adempita nella Tevà, quasi un ribosoma.
L’augurio rivolto a Cavaglion è, quindi, quello di realizzare una “biblioteca parlante” e non un archivio, un luogo dove i testi vengano discussi e le parole trasmesse, una scola in cui scorra nuovamente la vita.
Emanuele Levi
(16 novembre 2015)