Imparare a conoscersi
“Cara signora Angelica Edna Calò Livne,
sono suor Agnese Elli, italiana, dell’Istituto delle Suore Missionarie Comboniane, residenti a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi. Siamo dodici suore di diverse nazionalità (italiana, spagnola, egiziana, eritrea, etiopica), e alcune di noi vivono qui da diversi anni.
Ho avuto il suo indirizzo dal Vicariato San Giacomo di Gerusalemme. Come comunità vorremmo incontrare l’altro, il diverso, e in questo caso gli ebrei, per uno scambio di vedute, opinioni ed esperienze per una maggior conoscenza di questa realtà di cui ben poco conosciamo. Per questo stiamo cercando ebrei di lingua italiana che siano disponibili a venire nella nostra comunità e condividere con noi la loro esperienza. Sappiamo che con suo marito vivete in un kibbutz e che avete fondato Beresheet LaShalom, di cui sarebbe anche bello conoscere la finalità, ci piacerebbe sentire poi che ne pensate dei soldati di Tzahal.”
Come al solito non so dire di no a chi mi chiede di conoscere l’altro volto d’Israele e dell’Ebraismo e con somma gioia di suor Agnese acconsento ad andare e a raccontare. Fissiamo per un venerdì e quel giorno ci sono anche tre miei cugini da Roma, una dei quali è Gloria, che ha deciso di fare l’Aliyah. Le suore sono entusiaste di questo inaspettato arrivo di tanti italiani. Arriviamo a Gerusalemme e Yehuda mi chiede di programmare il navigatore. “Allora: Monte degli Ulivi – Ras El amud”. Yehuda si gira calmo ma ha un guizzo negli occhi allarmato e malcelato…
“Non mi avevi detto dove stavamo andando!”
“Perché?”
“È uno dei posti più ‘caldi’ di Gerusalemme”
“Che ne so io, non seguo la politica”, rispondo con un sorriso.
Ci arrampichiamo su per il monte, sorpassiamo l’Augusta Victoria Hospital e quando arriviamo alla chiesa del Pater Noster chiediamo indicazioni a suor Agnese: “Scendete a sinistra, giù giù… dovete arrivare fino al muro”.
La strada è angusta, bambinetti con la faccia contorta brandiscono fucili giocattolo uno verso l’altro e sulle macchine che passano.
“Ma questa è ancora Israele?”, chiede mio cugino.
Yehuda sorride: “No siamo in zona palestinese.”
“Beh, meno male che siamo venuti anche noi… altrimenti anche stavolta te ne saresti andata in giro per questi posti da sola!”.
Il convento è proprio sotto al ‘muro’, la nostra barriera di protezione. Le suore ci accolgono con una gioia e un’emozione indescrivibili. Parlano tutte l’italiano e chiedo a ognuna di raccontare qualcosa di sé. Sediamo in cerchio e si crea subito un’aria di intimità e di affetto reciproco. Vorrebbero sentire qualcosa sul nostro ebraismo, sul teatro di ragazzi ebrei e arabi, sul kibbutz e soprattutto sui soldati israeliani, su cosa ne pensiamo di loro.
Inizio a parlare di come sia nata l’idea di un teatro per la pace al ritorno da Caletta di Castiglioncello dove avevamo condotto per l’Ose, cinquanta ragazzi colpiti dal terrorismo. Parlo dell’educazione in Israele ai valori dell’accoglienza, della responsabilità del rispetto reciproco… Improvvisamente un tonfo su una finestra e poi un altro e un altro ancora.
Le suore sorridono imbarazzate: “Tutti i venerdì, a quest’ora i ragazzini palestinesi iniziano a tirare sassi sulle finestre e sui soldati qui di guardia”. Ho un brivido: mi sovvengono le storie dei miei figli quando facevano la leva.
Il venerdì era un giorno nero: dovevano stare di guardia sulla barriera mentre frotte di ragazzini li martellavano di sassi e di improperi. I soldati avevano l’ordine tassativo di non muoversi: un minimo gesto di diniego verso i ragazzini e subito qualcuno era pronto per immortalare la violenza dei soldati israeliani verso i bambini. Le grida si fanno più potenti e anche i tonfi dei sassi. Ci alziamo e chiudiamo tutte le finestre e gli scuri della sala. Si sentono spari. Sicuramente i soldati sparano in aria per spargere la folla di ragazzini indiavolati. È il momento di parlare dei soldati d’Israele. I nostri ragazzi di 18-20 anni che stanno là fuori a far da guardia a loro e a tutta Israele. È il momento di ricordare certe frasi che ho sentito da ragazzi reduci dal corso ufficiali: “Un bravo soldato è quello che odia la guerra!” o che ti rispondono alla domanda: “ È vero ciò che dice Nasrallah, il capo degli Hezbollah? Che stanno vincendo?”.
“Dal momento che è morta una persona da questa o da quella parte, abbiamo perso, solo in pace vincono tutti!”.
Racconto loro dello spettacolo Beresheet, del momento in cui ragazzi ebrei, cristiani, musulmani e drusi, dopo aver calato le maschere, distribuiscono il pane della pace al pubblico. Alcune hanno le lacrime agli occhi, altre vogliono ancora delle risposte: “Ma questo muro, impedisce loro di andare al lavoro, li fa sentire frustrati, impotenti!”.
E allora ricordiamo loro delle decine e centinaia di profughi siriani e dei dintorni, da Gaza e Betlemme che vengono a curarsi nei nostri ospedali, a rifugiarsi nelle nostre case per donne abusate, che partecipano a corsi universitari e anche di cucito, di cosmetica e di cucina. Annuiscono in silenzio. Mentre la dissonanza tra l’atmosfera che si è creata tra di noi e il fragore circostante diventa sempre più profonda.
Ci lasciamo con la promessa di tornare e di ospitarle a Sasa. Programmiamo lo spettacolo Beresheet per festeggiare i 50 anni del Convento. Riceviamo una pioggia di benedizioni e ci inoltriamo nei meandri di quelle strade di cui tanto si parla nei bollettini della radio e della Tv.
“Cara Angelica,
porto ancora nel cuore gli echi del nostro incontro di ieri con te, tuo marito e i tuoi cugini, un incontro così carico di umanità, di desiderio di fare ancora di più nel campo dell’educazione che oserei dire è il campo privilegiato per raggiungere le coscienze e modellare i giovani nelle cui mani risiede il futuro.
Ti ringrazio per la tua coinvolgente esposizione e le tristi esperienze che hai condiviso che ci hanno commosso.
Spero tanto che questo sia il primo di una serie di altri incontri perché insieme possiamo fare la differenza e costruire un mondo migliore dove le parole chiavi siano: rispetto, accettazione reciproca, conoscenza, amore.
suor Agnese”.
E la Madre superiora scrive:
“Cara Angelica, mi permetto chiamarti così.
Da Betania un caro saluto a te e alla tua famiglia.
Grazie! la tua condivisione con noi è stato un dono e una grazia.
Il Signore ti ricolmi della sua sapienza, affinché il tuo impegno per una vita dignitosa ed una convivenza serena nella pace, sia una realtà per tutti.
Dio ti bendica! Con affetto attentamente ti saluto.
suora Teresa Yago e le sorelle della Comunità”.
Angelica Edna Calò Livne
(18 novembre 2015)