I bambini perduti
“Il mio fratellastro, figlio di primo letto di mio padre, nato prima della guerra con il mio stesso nome, è scomparso non si sa bene come nel ghetto. Da molto tempo, dagli anni dell’infanzia e della scuola, abita dentro di me”.
Con queste parole narra dei bambini perduti, in Il dibbuk e altre storie (Giuntina editore), la giornalista e scrittrice polacca Hanna Krall, la cui notorietà risale alla sua intervista al vicecomandante dell’insurrezione del ghetto di Varsavia, Marek Edelman, il quale si muoveva per “arrivare prima del signore Iddio” – un po’ come l’agente del Mossad protagonista del bellissimo e toccante film di Eytan Fox, Camminando sull’acqua.
Sono proprio i bambini perduti, fuori da ogni censimento o statistica, che possono descrivere le deportazioni, gli assassini, il tasso di mortalità o di sopravvivenza. Ignari della loro provenienza, spesso destinati a scoprire le proprie origini a distanza di decenni, costoro erano i bambini cresciuti in seno al programma Lebensborn (creato da Himmler già nel 1935 per ‘germanizzare’ bimbi con caratteristiche somatiche presunte ariane rapendoli dalle loro case, da orfanotrofi, ghetti e lager, o addirittura nelle strade, al fine di educarli in centri controllati dal regime). Oppure bambini accolti da polacchi cristiani che li avevano rinvenuti presso i binari su cui erano passati i treni dei deportati, vicino ai ghetti, in prossimità delle proprie case. Cresciuti cattolici, solo all’epoca della morte dei ‘genitori’ essi scoprono di avere radici ebraiche ed una memoria familiare tutta da cercare di ricostruire.
Dall’altra parte, come nel racconto della Krall (che rammenta la vicenda delle nonne di Plaza de Mayo alla ricerca dei nipoti cresciuti in seno alle famiglie del regime argentino, il quale prima uccideva le madri, desaparecide, e poi dava in adozione i loro figli nati nei centri di detenzione e di tortura istituiti dalla giunta militare), ci sono genitori sopravvissuti e fratelli nati spesso dopo la guerra, i quali hanno trascorso la loro esistenza lacerati dai dubbi sulla sorte degli scomparsi. Se. Se fosse sopravvissuto. Se fosse vivo da qualche parte. Se anche lui mi stesse cercando.
Oggi Manni, all’anagrafe Manfred, nato a Lipsia da Jakob e Paula, avrebbe settantasette anni. Anche lui era stato inviato in Polesine in regime di internamento libero con i genitori, ed insieme a loro condotto al carcere di Rovigo, da dove i genitori sarebbero stati trasferiti a Fossoli e da lì deportati a Birkenau, mentre il bimbo fu fatto uscire dal carcere, affidato a due famiglie del luogo e prelevato improvvisamente da militari tedeschi.
Da allora, come racconta Chiara Fabian in ...Siamo qui solo di passaggio, di Manni si perdono le tracce.
Manni nasce, secondo la sorella Sandy, quando lei ha tredici anni. Newyorchese figlia di due sopravvissuti alla Shoah, Sandy apprende improvvisamente di avere avuto un fratello quando il padre una sera tarda a rincasare (si scoprirà, a seguito di una rapina) e la ragazzina sente la madre farfugliare, in preda al panico, qualcosa su questo: sta accadendo di nuovo, perdo ancora chi amo come già il mio bambino. Quale bambino?
Da allora Sandy non ha mai smesso di cercare il fratello, figlio del primo matrimonio della madre. Il nome di Manni compare nel Book of names, l’impressionante installazione di due metri per quattordici contenente i nomi di oltre quattromilioniduecentomila (e scritto così fa un altro effetto che non in cifra) persone assassinate la cui sorte è stata ricostruita da Yad Vashem, all’interno del Padiglione Auschwitz ideato e progettato nell’ex blocco 27 del lager con fondi del governo israeliano e della Claims Conference. Ma a Bad Arolsen, dove si trova il più importante archivio e centro di ricerca sulla deportazione nazista,non hanno notizie di Manni.
Forse, da qualche parte, Manni ora è un nonno che tiene per mano un bambino dai grandi occhi, un bambino così simile a quello raffigurato nel ritratto consegnato dalle mani commosse dell’artista che lo aveva disegnato, Rosa, a quelle di Sandy. Fino al 2007, quando l’instancabile energia di Luciano Bombarda dell’associazione Il Fiume ha fatto incontrare tutti noi, il ritratto di Manni è stato in bella vista sulla credenza della casa in cui aveva giocato tanto, aspettando il ritorno dei genitori che mai sarebbero arrivati. Oggi, almeno il disegno è tornato a casa con Sandy.
Sara Valentina Di Palma
(19 novembre 2015)