Aprirono le porte, a loro rischio
Due preti piemontesi tra i Giusti
Consegna a Rivoli della medaglia di “Giusto tra le nazioni” alla memoria di monsignor Vincenzo Barale e don Vittorio Cavasin, protagonisti entrambi del salvataggio di oltre sessanta bambini ebrei che furono nascosti assieme a loro coetanei cattolici nel collegio salesiano di Cavaglià.
Monsignor Barale era segretario del cardinale Maurilio Fossati, all’epoca arcivescovo di Torino, il quale aveva già esternato la sua disponibilità ad ospitare gli sfollati. Di qui la scelta estrema di alcune famiglie ebraiche che si videro costrette, per mancanza di altre risorse, ad affidare i propri figli all’arcivescovado, nella speranza che sfuggissero ai rastrellamenti. Monsignor Barale era appunto la figura cui dovevano rivolgersi le famiglie ebraiche che facevano richiesta di protezione. A lui inoltre spettava il compito di accompagnare personalmente i bambini al collegio di Cavaglià, il cui rettore era don Cavasin. Quest’ultimo rivestiva l’importante compito di fornire ai bambini ebrei i rudimenti base e i rituali del cattolicesimo, in modo tale da rendere evidente la loro assimilazione con gli altri, rendendo così più efficace e sicuro il tentativo di proteggerli.
Questa ‘assimilazione’ era del tutto simbolica, anzi l’unico intento era far sì che i bambini ebrei apparissero uguali a quelli cattolici. Lo stesso don Cavasin limitava al minimo indispensabile la loro partecipazione personale ai sacramenti. Come è stato ricordato nel corso della cerimonia quest’aspetto, che può sembrare all’apparenza marginale, conferisce invece valore inestimabile a un comportamento già di per sé onorevole, per il semplice fatto che altri membri della Chiesa che si offrirono di proteggere e nascondere gli ebrei avevano come finalità anche la “salvezza delle loro anime”, propendendo quindi per la loro conversione (anche attraverso forti pressioni psicologiche).
Alla cerimonia, convocata dall’amministrazione cittadina e dall’associazione culturale La Meridiana, hanno preso parte tra gli altri il sindaco Franco Dessì; il ministro consigliere dell’Ambasciata d’Israele in Italia Rafael Erdreich; Mario Iona, membro dell’associazione culturale La Meridiana; un testimone diretto della vicenda, allora bambino, Roberto Zargani, e alcuni parenti dei salvatori; Maria Caterina Succi, nipote di monsignor Barale; e Paolo Cavasin, nipote di don Cavasin. In sala anche il presidente della Comunità ebraica torinese Dario Disegni.
La cerimonia si apre con l’esecuzione dell’inno dello Stato d’Israele, seguita da quella dall’inno italiano. A prendere per primo la parola è il padrone di casa, Dessì: “Queste due figure di cui oggi siamo qui a premiare l’operato appartengono a una resistenza specifica, quella civile, contro l’involuzione morale ed etica veicolata dal fascismo. Più che giusti tra le nazioni – le sue parole – sono da considerare giusti tra gli uomini”.
Segue l’intervento di Erdreich, che si riferisce ai ‘Giusti’ come a dei portatori di un’umanità nella sua forma più nobile: cioè l’offerta di aiuto a rischio della propria vita.
Iona ricostruisce invece il contesto e la vicenda che vede coinvolti i due Giusti, ricordando in specifico come sia monsignor Barale che don Cavasin abbiano agito nel massimo rispetto per la vita e per la religione dei bambini ebrei.
Mette poi in luce un altro aspetto, altrettanto meritevole, e cioè la riservatezza che hanno entrambi riservato al loro operato nel dopoguerra, non tanto da imputare alla paura di raccontare, quanto più ad una totale assenza di vanità. Sarà poi il nipote di don Cavasin a ricordarne il carattere schivo, unito però a una profonda responsabilità verso i giovani.
A questi interventi segue quello di Roberto Zargani, testimone diretto degli eventi assieme al fratello Aldo, che in preda ad una forte emozione riporta alla luce frammenti di memoria di quando era bambino. Frammenti solo apparentemente sbiaditi a causa del tempo: “Eravamo bambini, ma sapevamo cosa stava succedendo”. Ricorda le inferriate del collegio, che attraverso gli occhi del Roberto bambino avevano l’aspetto di una prigione, più che di un luogo di salvezza. Ricorda quel momento come uno dei più tristi e tremendi perché sanciva la definitiva separazione dai genitori, ma allo stesso tempo fa capolino nella memoria il tentativo di don Cavasin di farli ballare, nella debole speranza di indurli a smettere di piangere.
Maria Caterina Succi, anche lei bambina all’epoca delle leggi razziste, parla dei Giusti come di coloro che si distinguono per “un senso assoluto di fermezza tra le macerie materiali e morali dell’epoca, che andava al di là di ogni tipo di appartenenza”.
Alice Fubini
(20 novembre 2015)