Periscopio – Pollard
La vicenda di Jonathan Pollard, l’ebreo americano oggi sessantunenne, imprigionato a Washington nel novembre 1985 con l’accusa di spionaggio a favore di Israele, condannato all’ergastolo nel 1987 e finalmente rilasciato (sia pure in regime di libertà vigilata, e col divieto per cinque anni di lasciare il suolo statunitense) dopo tre lunghi decenni di prigionia, si presta a diverse valutazioni.
Dal punto di vista strettamente legale, non c’è dubbio che la condanna sia stata tecnicamente giustificata, in quanto è vero che Pollard ha passato a Israele numerose informazioni, relative agli armamenti dei Paese arabi, coperte da segreto e acquisite nella sua funzione di funzionario del Ministero della Difesa statunitense. Il suo era un incarico altamente fiduciario e tale fiducia è risultata tradita, da cui la severa condanna.
Dal punto di vista morale, la questione può apparire più controversa. Non c’è dubbio che il dovere di fedeltà e lealtà verso il proprio Paese sia un importante imperativo morale che è sempre stato particolarmente sentito dal popolo ebraico nei lunghi secoli della diaspora, nei quali la vita degli ebrei nelle varie nazioni ospitanti – indipendentemente dalle condizioni di maggiore o minore benessere in cui venissero a trovarsi -, è sempre stata segnata da tale dovere; tradotto nel principio “dinà demalchutà dinà”, “la legge dello stato è legge”, ovverosia l’obbligo dell’obbedienza alle leggi del Paese in cui l’ebreo si trova a vivere.
Naturalmente, gli ebrei hanno sempre dovuto rispettare, in primo luogo, la loro Halakhah, la legge mosaica, ma tale osservanza non li ha mai esonerati dal rispetto delle leggi secolari, tanto che, com’è noto, sovente l’imposizione forzata di norme inconciliabili con l’osservanza halakhica è stata volutamente pensata e attuata con lo specifico obiettivo di spingere all’allontanamento le comunità ebraiche, spesso indotte a emigrare, in questo modo, senza neanche la necessità della formulazione di un esplicito ordine di espulsione.
Non sono mancate, naturalmente, nella storia casi in cui gli ebrei hanno ritenuto di dovere disobbedire o tradire. Ricordiamo, per tutti, il caso dei fratelli Aronson, sudditi in Palestina dell’impero turco, che, durante la Prima guerra mondiale, scelsero di tradire a favore dell’impero britannico, contro il volere degli stessi responsabili della Comunità ebraica locale. Lo fecero in piena coscienza perché ritennero che la drammatica situazione del momento imponesse tale scelta, per l’interesse superiore della salvezza del loro popolo.
Si è trovato, Pollard, in una situazione analoga? Egli, assumendosi la responsabilità del suo gesto, lo ha giustificato con la considerazione che riteneva che le informazioni in suo possesso potessero considerevolmente contribuire a proteggere lo stato di Israele, sottoposto a una grave e incombente minaccia, e che ha ritenuto suo dovere muoversi in tale senso.
La sua coscienza e il suo essere ebreo, evidentemente, gli hanno imposto un dovere di solidarietà che gli è parso prevalente rispetto al dovere di fedeltà alla sua nazione americana. E non è detto che tale prevalenza indicasse una preminenza, in generale, dell’identità ebraica rispetto a quella statunitense: Pollard riteneva, semplicemente, e giustamente, che fosse Israele a essere minacciato e non gli Stati Uniti. Ma la cosa principale è che il suo comportamento, pur contrario alle leggi americane, non ha mai minimamente messo a repentaglio la sicurezza degli Stati Uniti. Un abisso separa perciò la sua posizione da quella, per esempio, dei coniugi Rosenberg, condannati e giustiziati, nel dopoguerra, per la ben più grave accusa di spionaggio atomico a favore dell’Unione Sovietica.
Pollard ha obbedito alla sua coscienza e ne ha pagato il prezzo. Non c’è dubbio che il suo gesto, una volta scoperto, abbia fortemente nuociuto non solo alle relazioni tra Israele e Stati Uniti, ma anche alla generale reputazione degli ebrei americani, rinfocolando i ricorrenti dubbi sulla loro ‘doppia lealtà’. Non ci sentiamo perciò di dire che abbia fatto bene o che il suo unico sbaglio sia stato quello di farsi scoprire. Ma certamente è un uomo che agito, magari sbagliando, per la difesa di un ideale nobile e importante e come tale va considerato. Se la sua condanna è stata giusta e se si può anche comprendere l’irritazione degli americani – che si sono visti spiati da un Paese loro storico alleato e protetto -, assolutamente abnorme e sproporzionata appare l’inusitata durezza della pena effettivamente scontata: trent’anni, in pratica un’intera vita, un castigo riservato solo ai più sfortunati tra gli stragisti e i pluriassassini.
L’America ha voluto infliggere una punizione esemplare, al di là della personale responsabilità morale del condannato, e ciò non fa onore alla sua alta civiltà giuridica.
Francesco Lucrezi
(25 novembre 2015)