L’intervista al Premio Nobel Stiglitz
“Educazione, la chiave del futuro”

Schermata 11-2457353 alle 14.09.35Il Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz a colloquio con Pagine Ebraiche sul tema dell’educazione, in particolare come strumento per superare le diseguaglianze sociali. Grande protagonista dell’intervista del mese che appare sul numero di dicembre del giornale dell’ebraismo italiano in distribuzione, Stiglitz spiega come un ruolo fondamentale per combattere le diseguaglianze, tema cui ha dedicato parte dei suoi studi, sia un sistema educativo che garantisca a tutti l’istruzione e permetta di accedere in seconda battuta al mercato del lavoro senza difficoltà.
Confrontandosi con la stampa italiana, Stiglitz ha successivamente posto l’accento sul rischio che i fatti di Parigi possano portare a gravi conseguenze per il sistema economico europeo. E cioè a una nuova recessione.

Gary doveva essere la Città del secolo, la città magica, doveva rappresentare il sogno americano del progresso. Qui nei primi del Novecento, nello Stato dell’Indiana (a una trentina di chilometri da Chicago), il presidente della United States Steel Corporation, Elbert H. Gary, costruirà la sua fabbrica d’acciaio, dando vita all’omonima località.
Iniziò così una sorta di pellegrinaggio verso questa piccola cittadina sulle sponde del Michigan: a cercarvi fortuna, in particolare dal secondo dopoguerra in avanti, emigranti provenienti dalla disastrata Europa e afroamericani stanchi delle vessazioni del Sud. Dal nulla Gary diventò uno dei poli produttivi più importanti del Paese ma alla gloriosa espansione industriale si affiancheranno ben presto i grandi problemi dell’America di allora, su tutti, l’affermarsi delle disuguaglianze sociali e delle discriminazioni razziali. “Crescendo a Gary non potevi non notare la povertà, la discriminazione. Era impossibile non vedere che qualcosa non funzionava”, ricorda l’economista Joseph Stiglitz, che nella proletaria e ruvida Gary ci è nato e cresciuto. E in quel contesto, ha spiegato a Pagine Ebraiche il premio Nobel per l’Economia ed ex capo economista della Banca mondiale, è maturato il suo interesse per lo studio delle disuguaglianze. Di famiglia ebraica, Stiglitz è cresciuto ascoltando le discussioni tra la madre Charlotte, progressista e sostenitrice del New Deal, e il padre Nathaniel, piccolo imprenditore con posizioni più conservatrici ma sempre politicamente vicine ai democratici. “Negli anni ‘70 – il ricordo di Stiglitz, classe 1943, di suo padre – divenne un grande sostenitore dei diritti civili. Aveva un forte senso civico e di responsabilità morale. Era una delle poche persone che conoscevo che insisteva per pagare i contributi previdenziali a chi lavorava da noi a domicilio, che lo volessero o no; sapeva che ne avrebbero avuto bisogno una volta anziani”.
L’egualitarismo sociale e il sostegno dei lavoratori erano temi di cui si discuteva a tavola ed erano argomenti condivisi da molti concittadini ebrei di Gary: fino alla metà degli anni Sessanta, infatti, saranno diversi gli esponenti della piccola Comunità locale a impegnarsi in politica, la maggior parte sul fronte democratico. Uno su tutti, Martin Katz che dal 1963 al 1967 sarà eletto sindaco della città grazie al sostegno – come si legge nel libro Gary, the Most American of All American Cities di Paul O’Hara – di afroamericani e degli operai dell’acciaieria, convinti dalla sua agenda diretta a una maggiore integrazione sociale e alla tutela dei diritti dei lavoratori. Katz verrà poi battuto da Richard G. Hatcher, il primo sindaco nero nella storia degli Stati Uniti, tra i simboli della lotta alla segregazione. Una questione che ancora oggi ha lasciato chiari segni nella realtà americana, dove il tema razziale non è mai scomparso dal dibattito pubblico – basti ricordare i fatti di Baltimora. Una ricerca pubblicata nel 2014 dal Dipartimento americano per l’educazione rileva che il sistema scolastico Usa (97mila le scuole prese in considerazione) non garantisce le stesse opportunità di apprendimento a tutti gli studenti (un quarto delle scuole con studenti in prevalenza latini o di colore non ha accesso a corsi di algebra di secondo livello o di chimica). Un tema al centro degli studi Stiglitz, e da tempo al centro dei suoi pensieri: quando viveva a Gary, aveva una governante, Fannie Mae Ellis, una donna di colore cresciuta nel sud del paese, costretta a lasciare la scuola a sei anni.
“Le nostre aspettative erano andare al college – ricorda l’economista – e mi chiedevo perché una persona di quel valore, così brillante, potesse aspirare solo a un grado di istruzione elementare… Non avevo parole per descriverlo ma mi colpì, mi diede molto fastidio”. Spinto da un idealismo che traspare chiaramente dalle suo parole – riconducibile, guardandolo in prospettiva ebraica, ai principi di Tzedakah, giustizia sociale – il Premio Nobel si è concentrato nell’analizzare le falle del sistema economico e di alcune delle teorie che lo reggono. Con i suoi lavori, Stiglitz, tra gli ospiti di punta della decima edizione del Festival Economia di Trento, ha mostrato come i modelli classici, che parlano di un mercato razionale ed efficiente, possano in realtà dare luogo a risultati instabili con molteplici punti d’equilibrio, non necessariamente efficienti, oppure per nulla in equilibrio. Per l’economista, il neoliberismo sbaglia nel pensare che i mercati portino autonomamente a soluzioni efficaci; e in un mondo in cui la globalizzazione costituisce un fenomeno economico positivo (tema a cui ha dedicato un’opera molto conosciuta, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, 2002 ) è ancora più cruciale controllare il mercato globale. Altrimenti? I risultati si vedono proprio nella città natale di Stiglitz, quella Gary che sognava di essere una locomotiva e invece è un fantasma: l’apertura del mercato globale ha fatto crollare l’industria locale dell’acciaio e il 90 per cento degli operai in pochi anni è stata licenziata. “Nell’economia moderna devi correre per riuscire a rimanere fermo”, il riassunto di una situazione di produzione frenetica che ha spazzato via molte aziende e ha ampliato in molti paesi la forbice nel divario tra ricchi e poveri. Una fotografia che si addice in particolare agli Stati Uniti, a cui è in larga parte dedicato l’ultimo libro The Great Divide: Unequal Societies and What We Can Do About Them (2015).
Professore, lei ha lavorato molto per analizzare le disuguaglianze sia negli Stati Uniti sia su scala globale. Se dovessimo tradurlo in dati, di che fenomeno stiamo parlando?
Se guardiamo il quadro attuale, l’un per cento della popolazione detiene circa il 25 per cento del reddito, e negli ultimi 30 anni questa proporzione è cresciuta di 3-4 volte. Ho sentito che non dovremmo preoccuparci di chi sta in alto, perché i benefici cadranno a cascata anche sui poveri e sulla classe media. Non è così: chi sta in fondo alla scala sociale oggi sta peggio. In 40 anni i redditi medi sono rimasti praticamente invariati ma i salari reali minimi sono oggi più bassi anche rispetto a circa 60 anni fa. Questo spiega perché oggi negli Stati Uniti c’è ad esempio un forte movimento politico che spinge per aumentare i salari minimi. E penso in particolare alle donne, che in caso di monoreddito e un figlio a carico, si trovano in situazione di grande difficoltà. Inoltre, la disparità di reddito determina anche disparità nelle opportunità. Ciò si potrebbe compensare ad esempio con una buona istruzione pubblica, ma negli Stati Uniti non succede.

Quale peso ha il sistema scolastico ed educativo perché una società sia più o meno disuguale?
È fondamentale ed è necessario investire in politiche educative dirette anche alle famiglie. Una battuta che faccio spesso ai miei studenti è che la decisione più importante della loro vita e quella di non scegliere i genitori sbagliati. E una battuta ma corrisponde alla verità e dobbiamo fare in modo che la situazione cambi. E, come sottolineava il mio collega Anthony Atkinson (Nobel per l’Economia 2012), è necessario avviare progetti dedicati già alla prima infanzia.

Lei però ha raggiunto la vetta senza che la sua famiglia rientrasse nell’élite.
Mia madre mi incoraggiava a usare il cervello. E ho avuto la fortuna di avere grandi maestri nel corso del mio percorso scolastico.

Per far accedere all’università più persone possibili oggi esistono le università o comunque l’insegnamento online. Lei cosa ne pensa?
Sicuramente in termini generali è positivo perché garantisce a studenti, che altrimenti non potrebbero seguire, di avere una formazione. Ma credo ancora che i maestri siano importanti, ciò che dobbiamo fare è alzare il livello dell’educazione.

A proposito di disuguaglianze, Israele aveva avviato al suo interno un progetto, quello socialista dei Kibbutzim, che voleva abbatterle. Ma è fallito. Che insegnamento dobbiamo trarne?
Non conosco abbastanza bene la realtà dei kibbutz per rispondere. Quello che so è che Israele stessa è nata sulla spinta dell’egualitarismo sociale e invece oggi è uno dei paesi in cui il divario sta aumentando di più. Il progetto originale era straordinario, volto a creare una società giusta. Ora si stanno allontanando pesantemente da quell’obiettivo.

Daniel Reichel

Il miglior economista di Gary

Nell’ebraismo la figura del Maestro è fondamentale, lo è in particolare in virtù del rapporto che si crea con i suoi discepoli. Tanto che, ricordava sul Portale dell’ebraismo italiano rav Alfonso Arbib, Amalek (il simbolo di chi vuole distruggere gli ebrei) cerca di rompere questo legame per fermare il ponte tra le generazioni e la trasmissione del sapere. Come lo è per la tradizione ebraica, l’importanza dell’insegnamento è un valore condiviso da tutta la società civile e il ruolo di buoni insegnanti è determinante per la sua costruzione.
A ribadirlo, tra gli altri, il Premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, che nel corso della sua lunga carriera si è più volte battuto per l’adozione di politiche scolastiche ed educative volte a garantire a tutti gli strumenti per poter entrare nel mercato del lavoro. Come raccontano i suoi studenti del corso di Globalizzazione e mercati alla Columbia University, Stiglitz verso di loro mostra una grande attenzione, e cerca di rispondere a tutti i loro interrogativi. Uno studente, sulle pagine della rivista della Columbia, ricorda come i suoi compagni si lanciassero nell’ascensore per poter fare la strada con lui e porgli domande. E scrive: “Ero esterrefatto dalla sua cordialità e disponibilità”. Un buon maestro ha avuto a sua volta buoni maestri e l’economista, considerato una delle voci più influenti di questo secolo e con un passato da consigliere economico alla Casa Bianca (oltre che da capo economista della Banca Mondiale), testimonia in prima persona di averne avuti diversi.
A iniziare dalla tanto bistrattata scuola pubblica americana, frequentata nella operaia città natale di Gary, nell’Indiana. Resisi conto delle sue capacità fuori dall’ordinario, i docenti del giovane Joseph iniziarono a farlo studiare con un percorso diverso, facendolo lavorare su libri adatti al college. In quegli anni Stiglitz decise di diventare un professore: “Sapevo che l’educazione era importante ma, più di questo, il mio obiettivo era far progredire la conoscenza”.
A segnare il suo percorso di studente anche il triennio passato al college di Amherst, piccola quanto avanzata realtà del New England, in cui “i migliori professori insegnavano ancora con un stile socratico, ponendo domande, dando risposte a cui si aggiungeva un ulteriore domanda”. In tutti i nostri corsi – ricorda Stiglitz – ci insegnavano che la cosa più importante era porre la domanda giusta nel modo giusto. Rispondere diventava spesso una questione relativamente semplice”.
Presa la strada dell’economia – inizialmente aveva diretto i suoi studi verso la fisica – Stiglitz potrà contare su tre illustri nomi del mondo accademico americano: Paul Samuelson, Franco Modigliani e Robert Solow.
Tutti e tre di famiglia ebraica, ma soprattutto tutti e tre vincitori del Nobel per l’Economia. Con Samuelson poi, Stiglitz condividerà anche la città d’origine: “Doveva esserci qualcosa nell’aria di Gary che portava agli studi economici: il premio Nobel Paul Samuelson era di Gary e molti autorevoli economisti vengono da lì. Certo, la povertà, la discriminazione, la disoccupazione non potevano non colpire una giovane mente: perché tutto ciò esisteva”.
Ha scritto Stiglitz: “Una volta Paul, in una lettera di raccomandazioni scritta per me, sintetizzò il suo pensiero dicendo che ero il miglior economista di Gary, Indiana”.

Pagine Ebraiche, dicembre 2015

(Il ritratto di Joseph Stiglitz è di Giorgio Albertini)

(26 novembre 2015)