Parigi, l’anno del coraggio
Nelle viscere del Califfato
A pochi giorni dai drammatici fatti di Parigi il giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche pubblica sul numero di dicembre in distribuzione un ampio dossier (curato da Ada Treves) e vari servizi. Dal racconto del giornalista israeliano inviato nelle viscere di Daesh alla testimonianza dei giovani medici italiani in servizio negli ospedali della Capitale francese. E ancora le analisi di Ilan Greilsammer, Philippe Ridet, Gérard Haddad, Alain Finkielkraut, Georges Bensoussan. Da Charlie al Bataclan molte pagine per raccontare la ferita d’Europa e la riscossa della libertà.
“Mai come oggi, in questi giorni di minaccia e di paura, ma anche di risveglio degli ideali di libertà e di orgoglio identitario, vogliamo ascoltare e pronunciare chiare parole. Ecco la nostra istanza di ebrei italiani, di cittadini, di giornalisti” scrive il direttore Guido Vitale nell’editoriale che apre le pagine di “Parigi, l’anno del coraggio”.
“Forse è vero che l’Europa si sta svegliando. Ma la domanda è come e per fare cosa”. Itai Anghel, giornalista di Arutz 2, il secondo canale della televisione israeliana, parla con Pagine Ebraiche all’indomani dei fatti di Parigi e di ritorno da una serie di conferenze negli Stati Uniti. Un mese fa era a Kobane, città curda nel nord della Siria divenuta uno dei simboli della lotta, ma anche della devastazione, portata dall’Isis, per un documentario che andrà in onda nei prossimi mesi.
Appassionato di Italia e di calcio (come raccontato sul giornale dell’ebraismo italiano nel maggio 2015), Anghel fa il corrispondente di guerra dal 1989. È stato nei Balcani, in Rwanda, in Pakistan, in Afghanistan. Nel dicembre 2014 è partito di nuovo, destinazione Siria, e poi Iraq: la linea del fronte dove al califfato si oppongono le milizie curde.
Il risultato è un documento unico, 45 minuti in cui l’ebraico si mischia all’arabo e all’inglese, tra testimonianze dei soldati che combattono contro l’Isis e interviste ad alcuni boia delle bandiere nere, catturati negli scontri, là dove si tocca con mano lo sgretolamento dello scacchiere mediorientale. “Era uno dei confini più protetti e sorvegliati del mondo. Oggi lo può attraversare chiunque senza batter ciglio. Anche un israeliano di Tel Aviv. O un combattente dell’Isis” racconta Anghel alla telecamera in poche stranianti sequenze attraverso il fantasma di un posto di frontiera.
“L’Europa dichiara oggi di voler distruggere l’Isis, ma non è un risultato che si possa in concreto ottenere come lo descrivono. Le dichiarazioni dei leader europei onestamente suonano più indirizzate a placare le opinioni pubbliche, che non a delineare un vero piano d’azione” spiega al telefono il giornalista.
Secondo la sua opinione, è ancora rilevante l’ipocrisia che vela l’approccio del Vecchio Continente alle minacce globali. “Penso che la nozione più problematica sia rappresentata dal fatto che l’ideologia dello Stato islamico, i suoi valori, non possono essere sconfitti. Non è una questione di educazione, anche se il 99 per cento dei musulmani del mondo rigettassero completamente queste dottrine, quelli che rimangono sarebbero sufficienti. Perché così funziona il terrore, basta un decimale di percentuale per abbattere le Torri gemelle”.
Ma allora quali possono essere i rimedi da opporre all’Isis? “Se le loro idee non possono essere sradicate, può esserlo l’entità statale. Il califfato esiste solo se ha un territorio, il califfato può essere un polo d’attrazione per chi condivide le sue ideologie solo se è un luogo geografico. Smantellarlo vuol dire neutralizzare questo meccanismo”. Essere pronti ad affrontare un conflitto dunque, senza nascondersi dietro parole che rischiano di rappresentare solo triti slogan come “portare la pace in Medio Oriente”. È questa la mossa dello scacco agli islamisti secondo Anghel. “Intraprendere una guerra però è un’enorme responsabilità: non basta vincere le battaglie, poi è necessario ricostruire. Non vedo paesi stranieri che siano pronti a un’impresa del genere. Penso che la scelta sarà quella di fornire maggior supporto a chi è già sul territorio. Ma le uniche forze di cui oggi ci si può davvero fidare, a mio parere, sono i curdi”.
Il reporter i curdi li conosce bene. Sono loro i protagonisti del suo documentario, e in particolare le soldatesse. Sono giovani reclute di 17 o 18 anni dagli occhi scuri e i capelli di ogni sfumatura di castano, trenta e quarantenni con il volto già bruciato dal sole. Le loro voci, le loro armi, sembrano essere l’unico strumento per instillare nei militanti dello Stato islamico la paura della morte, perché, nella loro ideologia malata, se uccisi “da una creatura inferiore”, come una donna, perderanno il diritto al paradiso e alle 72 vergini che sono convinti di conquistarsi nel perire da “martiri”.
“Di fronte a un’idea del genere, non so se ridere o se piangere…” sottolinea ironicamente nel documentario Media, uno dei più alti comandanti nella lotta all’Isis, sulle montagne dorate davanti a Mahmour, città nella cui liberazione il contributo femminile è stato decisivo.
Nel suo nuovo documentario, Anghel si concentrerà su un altro aspetto cruciale per l’Europa, quello delle migrazioni. “Quando un paese attraversa una situazione difficile, si aprono due strade davanti: c’è chi sceglie di rimanere e combattere per riprenderselo, e chi sceglie di scappare. Tra Kobane e la Germania, ho cercato di ascoltare le voci di entrambi”, anticipa. Ancora una volta, una delle molte criticità deriva dell’atteggiamento degli Stati europei. “Da un lato, io penso che i rifugiati vadano accolti, che anche Israele stessa dovrebbe accoglierli. E vedo la tragicità di situazioni che ho toccato con mano, di persone fuggite dalla Siria, dove sono state perseguitate dai jihadisti, anche di origine europea, che arrivano e vengono tacciate di essere jihadisti a loro volta.
Dall’altro bisogna ammettere che un problema c’è, che non si può offrire rifugio a tutti, che può capitare che il 99,95 per cento di innocenti nasconda infiltrati dell’Isis. Ma troppo spesso, chi lo mette in luce in Europa viene semplicemente archiviato come estremista xenofobo”.
Dopo l’ultima ondata di attentati, ai paesi occidentali rimane dunque il compito di cominciare a guardare alle situazioni per quello che sono, come primo passo sul difficile cammino dell’auspicata soluzione. Un compito cui possono dare un contributo anche i giornalisti. “A patto che vadano sul campo a documentare ciò che accade, non tentino di prevedere un futuro che nessuno conosce disquisendo su persone che non hanno incontrato e paesi che non hanno mai visto” rimarca Anghel. Che ammette: “Paura? Certo che ce l’ho, tutto il tempo. Ma, almeno per ora, continuo a partire”.
Rossella Tercatin
Pagine Ebraiche, dicembre 2015
(Nell’immagine, di spalle Itai Anghel intervista uno dei miliziani dell’Isis)
(29 novembre 2015)