integro…

“Giacobbe arrivò integro alla città di Shechem” (Bereshìt; 33, 18). Rashì interpreta ‘shalem’, integro, come integro nel corpo (guarito dalla sua zoppia), integro nelle sue proprietà economiche, integro nella sua conoscenza della Torah “perché, durante il suo soggiorno in casa di Labano, egli non aveva dimenticato l’insegnamento che aveva ricevuto”.
Giacobbe dunque è ‘shalem’, integro, dopo che è riuscito ad affrontare e superare il problema aperto rappresentato da Esaù, dopo aver ricomposto le sue fratture e le sue ambiguità.
Quando non si deve più travestire da Esaù per carpire la benedizione, allora può rispondere fieramente al fratello che gli dice “iesh li rav” (io ho molto) con “iesh li kol” (io ho tutto). A una concezione di vita caratterizzata dall’avidità, dove chi ostenta di avere molto finisce col volere sempre di più, Giacobbe contrappone una concezione dell’appagamento secondo la quale, quando si ha l’essenziale, ci si percepisce come se si avesse tutto.

Roberto Della Rocca, rabbino

(1 dicembre 2015)