… memoria
L’anno scorso, in questa stagione, ho scritto per Moked una nota come questa, stesso argomento, stesso tenore. Scrivere a volte non serve a nulla se non a sfogare l’amarezza.
Anniversario della deportazione, anche quest’anno. E anche quest’anno una piccola sinagoga riempita a stento, inclusi diversi gentili ospiti. Troppi di noi sono rimasti a casa. La Shoah sta passando in secondo piano, tormentata dalle polemiche e dal nostro oblio. Qualcuno l’ha messa in dubbio, altri la strumentalizzano, noi ce ne stiamo forse stancando.
Sono mancati da tempo i pochi che si erano salvati dai campi di sterminio, ora stanno mancando un po’ alla volta anche i loro figli, il tempo è passato, e forse è giusto dimenticare e iniziare una nuova vita, sgombra da dolori e da spiacevoli ricordi. La vita continua. Non si riconosce tuttavia in questo disimpegno, in questo voltarsi dall’altra parte, la cultura ebraica di cui tanto ci si vanta, la cultura della memoria che non si spegne e si riattiva, come a ogni Pesach, come a ogni Tish‘à beAv.
Forse c’entra il calo demografico, l’allontanamento di molti dalla vita comunitaria, l’allontanamento di altri dalla cultura tradizionale. Forse il ricordo della Shoàh non fa parte della ritualità più ortodossa che consente a chi mette i tefillin ogni giorno di pensare che un kaddish per i deportati non sia una mitzwah che li riguarda. Fatto sta che i molti banchi vuoti della sinagoga danno una stretta al cuore. Forse bisognerebbe riprendere a pensare. Pensare che, mancati i genitori, ai figli rimane il dovere di mantenere in vita il loro ricordo e la loro volontà di ricordare. Pensare che la memoria va trasmessa ai propri figli, se non si vuole spezzare la catena dell’appartenenza. E non c’è chi possa farlo al posto tuo. Non si può delegare la memoria ad altri; non ai soli rappresentanti di un’istituzione. La memoria è di ciascuno di noi, perché di ciascuno di noi sono i sei milioni di esseri umani sterminati nei campi di Auschwitz e Dachau e Mauthausen e… Lo sono uno ad uno. Non vale per loro un kaddish rituale dall’altare. Istituzionalizzare la Shoah è mitizzarla, distanziarla, sbarazzarsene. E non vale assolversi dicendosi ‘io ci penso tutti i giorni’. La memoria richiede l’umiltà di tanti atti personali che si facciano memoria collettiva, di tante presenze che si facciano comunità. Un minian affollato che sia un kaddish corale. E un pensiero che sia sentimento.
Dario Calimani, anglista
(8 dicembre 2015)