Vivere ancora
Poco più di due settimane prima di Rosh Hashanah 5761, che quell’anno cadeva di Shabbat, mi trovavo seduta ad un caffè viennese ad intervistare Ruth Klüger, eminente germanista nata a Vienna nel 1931 e da qui deportata insieme alla madre a Terezín, Auschwitz e Christianstadt, un campo satellite di Gross-Rosen.
Di quella esperienza Ruth, la quale finita la guerra si era trasferita negli Stati Uniti, aveva scritto otto anni prima Weiter leben. Eine Jugend, pubblicato in Italia nel 1995 con il titolo fedelmente tradotto di Vivere ancora. Storia di una giovinezza.
Una lettrice americana della versione inglese, il cui fidanzato perì nell’attentato al World Trade Center l’11 settembre 2001, lo descrive come toccante e capace di articolare i sentimenti contraddittori della sopravvivenza rispetto ad un evento traumatico: la frustrazione di essere etichettati da persone più o meno a conoscenza dell’evento ma non per questo in grado di capirlo, il senso di fastidio per il “turismo della memoria” di chi si reca ad Auschwitz piuttosto che a Ground Zero come se partecipasse ad una gita scolastica.
Un libro spesso tagliente ma sempre onesto negli intenti: “mi sembra corretto il principio per cui si dovrebbe scrivere solo su ciò di cui si ha qualcosa da dire”, mi raccontava l’autrice, la quale ha scritto volutamente in tedesco, da ebrea austriaca, rifiutando di ostracizzare la lingua, prima ancora che dei persecutori, della sua infanzia e della sua identità.
Vista dal locale in cui ci trovavamo Ruth e io, sul crepuscolo dell’estate, Vienna era bellissima, il caffè affollato e vivace, i dolci di sapore austroungarico deliziosi. La docente aveva proposto di incontrarci nella sua città natale dove si trovava per un convegno, e quale migliore occasione di averla, non troppo lontano da casa, proprio nei mesi in cui lavoravo ad interviste a sopravvissuti bambini alla Shoah? Ruth raccontava nel suo libro una città ben diversa da quella che ci si dispiegava davanti dalla vetrina del caffè: “Tutti coloro che erano più vecchi di un paio d’anni hanno vissuto un’altra Vienna, mentre io già a sette anni non potevo più sedermi sulle panchine dei parchi, e in cambio potevo considerarmi membro del popolo eletto”, esordisce Ruth nella sua autobiografia. Eppure, mi ha raccontato, “Non penso di venire da Auschwitz, è una cosa che mi è accaduta. Per me è stato un posto estraneo, un posto cui penso molto, ma il posto da cui vengo è questo, Vienna, che fa veramente parte di me”.
In quei giorni non ho visto solo Ruth. Ho visitato Stadttempel, la Sinagoga di Seitenstettengasse, inaugurata nel 1826 e unica delle quasi cento presenti in città sopravvissuta alla devastazione nazista della Reichkristallnacht nel 1938. Sono rimasta alquanto delusa dalla Sachertorte assaggiata all’Hotel Sacher, e forse avrei dovuta cercarla alla pasticceria Demel che per ben due volte è entrata in contenzioso legale con Sacher su chi davvero detiene la ricetta originale? Fatto sta che l’originale pare trovarsi solo lì all’Hotel Sacher, e mi ci sono precipitata solo per scoprirla troppo dolce e stucchevole per i miei gusti.
Ho passeggiato sulla Judenplatz, centro della vita ebraica viennese dal XII secolo, e dove poche settimane dopo il mio arrivo, il 25 ottobre 2000, sarebbe stato inaugurato il discusso monumento in memoria delle vittime austriache nella Shoah di Rachel Whiteread, il quale rappresenta una biblioteca pietrificata i cui libri volgono il dorso, illeggibile, verso l’interno, a simboleggiare tutte le persone la cui storia è stata inghiottita nello sterminio.
Ritorno a Vienna dopo quindici anni di un’intera vita per tutto quello che c’è stato nel mezzo, in un dicembre tiepido come lo strudel di mele che assaggiamo affamati dopo una notte sul treno Firenze-Vienna, il quale sembra derivare direttamente dal baclava turco ma anche dal borek, che poi è la bureka più conosciuta in Israele in versione salata, destinata ad imperitura memoria non solo per il suo sapore delizioso ma perché prima frase interamente pronunciata con orgoglio nel mio stentato ebraico a Tel Aviv (“Ani rozà et haBureka haSe” con tanto di dito indicante quale volessi, per sentirmi rispondere con un sorriso sornione che le mie parole suonavano un pochino impositive e un bevacashà, per favore, non sarebbe stato male).
Sara Valentina Di Palma
(10 dicembre 2015)