Impuniti
“Erano oltre un centinaio a circolare nella terra dei sogni irrealizzati, in quel fittizio Adriatisches Küstenland, mentre sulla lista pubblicata dai giornali di nomi ce ne sono sì e no una quindicina. E dove sono i soldati semplici? Dov’è la polizia tedesca? Dove sono gli ucraini? Dove sono i cosacchi? E dove sono le donne, o i familiari che li raggiunsero per le vacanze estive sulla costa adriatica o quelle invernali dal 1943 al 1945? E dove sono gli italiani al servizio del Reich? E dove sono i civili, gli osservatori silenziosi e tutti gli invisibili che parteciparono alla guerra? […] L’elenco potrebbe essere infinito. L’Elenco è, a tutti gli effetti, infinito”.
Questi interrogativi sono estrapolati dal romanzo di Daša Drndić, Sonnenschein (Bompiani, 2015). Opera che ho letto in ritardo nei tempi e per puro caso, poiché generalmente attuo una rigida selezione su tutto ciò che concerne la Shoah in ambito narrativo e cinematografico, sia perché si tratta di un argomento che inevitabilmente mi tormenta e mi porta a maledire la storia, sia perché escluse le testimonianze dirette dei sopravvissuti quello che ultimamente viene prodotto perde spesso di spessore e finisce per banalizzare il periodo. Sonnenschein, condividendo anche le perplessità espresse su queste pagine da Anna Foa specie per quanto riguarda la fiction e lo status della famiglia Tedeschi, non è probabilmente parte di un romanzo da inserire in una lista fittizia di opere fondamentali per riuscire a far comprendere la Shoah ai posteri. Non è né un romanzo, né un documento, forse la categoria che più le si avvicina è quella di un “romanzo-progetto”, come lo avviò Pasolini con Petrolio, un filone che nella letteratura postmoderna è ormai consolidato. Ma riesce in qualche modo a contestare il concetto di “banalità del male” elaborato da Hanna Arendt, e riflette – o almeno a me ha fatto riflettere – su un mondo dicotomico costituito esclusivamente da vittime/perseguitati e da carnefici/complici, tolta la sola eccezione dei “giusti tra le nazioni”. Il passo che ho citato, è l’emblema di questo. Dopo averlo concluso, emerge costantemente il timore di vivere in un’attualità, se non in un continuum, dove i colpevoli sono rimasti impuniti, e dove i discendenti di essi vivono la propria vita incuranti o inconsapevoli del silenzio e delle responsabilità dei loro predecessori.
Francesco Moises Bassano
(11 dicembre 2015)