Marina, la marescialla di Francia?
La si metta come meglio si crede, sospesi tra scetticismo, cinismo, timore, angoscia e qualche silenziosa curiosità, così qual è lo stato, a volte contrastante, senz’altro confuso, dei sentimenti, ma il risultato è sempre il medesimo.
Il Front National dei Le Pen (il plurale non è per nulla casuale) vince in Francia. Forse il secondo turno, in queste ore, si incaricherà di dirci che non dilaga. Ma anche nell’ipotesi migliore per quanti ne guardano con diffidenza la costante evoluzione in questi ultimi dieci anni (magari sperando che accordi tra la ‘sinistra hollandiana e i centristi sarkoziani possano fermare i candidati frontisti), rimane il fatto che conferma il suo oramai profondo radicamento nell’elettorato francese. Il primo turno esprime, tra le altre, un’evidente bocciatura della strategia di Sarkozy, il quale da tempo non riesce più a proporsi come credibile opposizione all’anemico governo socialista, tanto da permettere a Marine Le Pen di indicare il suo partito come l’autentico partito di opposizione.
Se i socialisti perdono per assoluta mancanza di identità, scavalcati da una crisi della politica che li getta nell’irrilevanza, i repubblicani sono oramai ridotti alla condizione di non sapere essere né carne né pesce. Un peccato capitale.
Inoltre, esce sconfitta la condotta tattica dell’ex Premier nelle settimane successive agli attentati di Parigi, in bilico tra la critica alle autorità politiche, accusate di non essere in grado di garantire la sicurezza dei cittadini, la necessità di non alzare troppo i toni e mantenere saldo il fronte comune contro la minaccia terroristica, salvo poi passare a utilizzare, nell’ultima settimana di campagna, argomenti duri e parole d’ordine sul modello di quelle già adottate nel 2012, nel tentativo di contrastare l’avanzata frontista contendendone spazi e immagini. Con effetti di dissonanza nel proprio elettorato.
Alla prima – e legittima – obiezione per la quale il tasso di affluenza alle urne è contenuto, trend che va manifestandosi oramai da molto tempo in tanti paesi europei, non si può che obiettare il fatto che in una democrazia contano quanti votano. La disaffezione, in sé lecita, non fa la differenza rispetto alla legittimità del voto e, soprattutto, dei suoi risultati. Piaccia o meno, il Front National ha giocato con intelligenza la sua partita politica. Grazie a Marine, sia ben chiaro, poiché non la stessa cosa sarebbe avvenuta se a condurla fosse stato l’ottuagenario patriarca o la nipote Marion.
Dopo i tragici fatti del 13 novembre, infatti, ha evitato di straparlare istericamente, semmai rafforzando, da una parte, la sua classica proposta politica, giocata sulla sicurezza, sul contrasto all’immigrazione (irregolare che, tuttavia, nei discorsi lepenisti diventa immigrazione tout court, stabilendo un nesso pressoché immediato tra presenza di migranti e ‘illegalità’ in senso lato), sulla polemica contro l’inefficacia dell’Unione Europa un po’ in tutti i campi di sua competenza (laddove l’antieuropeismo sta divenendo il terreno prediletto dei gruppi, dei movimenti e dei partiti che si dicono ‘antagonisti’ allo stato delle cose), sul contrasto politico, culturale e morale nei confronti dell’islamismo radicale (di riflesso coltivando e canalizzando le lievitanti antipatie che circolano nei confronti del mondo musulmano in quanto tale), sulla necessità di riconsegnare ‘la Francia ai francesi’; dall’altra, ha abilmente fatto propri i temi e lo spirito di ‘Union sacrée’ che si accompagna all’azione politica delle forze di maggioranza, piegandone però la lettura a proprio favore. Marine Le Pen, vero e proprio deus ex machina del partito, sta peraltro proseguendo una battaglia parricida contro il genitore, l’oramai vecchio e nostalgico Jean-Marie, e la sempre più ristretta ma agguerrita camarilla di potere che ancora lo segue.
Non è un caso, infatti, che all’enfasi con la quale la prima ha celebrato il risultato tra la notte di domenica e il lunedì mattina, abbia da subito fatto da controcanto l’anziano autocrate, con una delle sue sparate antisemite, a volere rovinare la festa in casa. Confermandosi nei suoi esibiti pregiudizi, ha diffuso su Twitter un video del sindaco di Nizza Christian Estrosi, candidato della destra moderata, che balla assieme ad un gruppo di ebrei ortodossi. “Buon viso a cattivo gioco” è il commento del tweet, che ha suscitato immediate polemiche ed è stato poi rimosso dal web.
Il siluro era rivolto alla figlia Marine Le Pen, la quale ha invece deliberatamente trattenuto la macchina politica del partito al di fuori dalle tentazioni estremiste – altrimenti molto diffuse nell’ossatura ideologica e culturale del Fronte ‘vecchia maniera’ – evitando temi, stili e argomentazioni umorali, muscolari, bellicose, divisive. Da molto tempo sa che sarebbe questo il modo migliore per incassare un autogol. L’immagine che coltiva da una decina di anni è invece quella ben più rassicurante di una forza politica ‘nazionale’, non strettamente nazionalista bensì ‘sovranista”’, aperta anche a temi un tempo altrimenti tabù. Il fatto che sia donna, e che sieda scomodamente al suo fianco un’altra giovane donna, Marion Maréchal Le Pen, nipote e starlette in ascesa del firmamento politico francese, è di per sé una rottura in un partito che è sempre stato molto maschile, prima ancora che maschilista.
Il sovranismo, di cui si diceva, è giocato in chiave rigorosamente anti-islamista, più per un calcolo d’interesse e di ritorno politico che non per un’intima convinzione. Poiché la leader del partito non può non sapere che, pur volendo e potendo innovare, non le è concesso il lusso di superare certe soglie, oltre le quali perderebbe il nocciolo duro dei suoi sostenitori, dei militanti e dell’elettorato di destra radicale, tutti visceralmente tradizionalisti per essenza e definizione. Laddove il tradizionalismo frontista è il rimando, in una sorta di gioco degli specchi, al deposito della Francia collaborazionista di Vichy e, prima ancora, di un certo cattolicesimo antirepubblicamo e antidreyfusardo. L’una e l’altra cosa, una sorta di spirito della Vandea, rimangono nella costituzione genetica del Fronte, anche se Marine Le Pen, che ha indossato i panni del politico a pieno titolo, ritiene che da soli non servano più a nulla. Deve quindi fare esercizio di equilibrismo, peraltro rivelandosi abile in tal senso. L’obiettivo fondamentale è di proseguire in quel percorso di ‘dédiabolisation’ del Front National, cercando di risultare più accattivante nei confronti degli elettori di destra maggiormente tiepidi, poiché ancora ancorati alla tradizione repubblicana e gollista, ancorché sempre meno convinti di Sarkozy e del suo partito.
A ciò si lega la costruzione di una traiettoria che dovrebbe accreditare il Fronte come forza di governo, uscendo una volta per sempre dal ghetto neofascista. E non a caso guarda con attenzione alla Lega di Salvini (che non è più quella di Bossi) così come agli altri movimenti e raggruppamenti europei di taglio populista. Il vero tornante, a tale riguardo, saranno le presidenziali del 2017. Marine Le Pen coniuga ‘normalizzazione’ a protesta, seguendo una traiettoria che è, per l’appunto, parte integrante del populismo europeo.
Il fuoco della sua operazione è il richiamo all’orgoglio delle classi medie in via di declassamento. Si tratta di una prateria di opportunità, lasciata completamente scoperta da una pallida sinistra istituzionale, completamente invischiata nel discorso sulle ‘compatibilità europeiste’ non meno che da improbabili sinistre antagoniste, completamente marginali e comunque estranee alla questione della crisi del ceto mediano, quella ‘piccola borghesia’ indefinibile, che sta al centro del ciclone economico in atto da oramai un decennio.
Nel caso francese funziona il dispositivo neo-lepenista così: sì, è vero, siamo (anche) gli eredi degli sconfitti del 1944, quando Vichy decadde ingloriosamente; non di meno, siamo molto oltre quella stessa eredità, se non altro poiché è cambiato tutto il panorama politico, nazionale, continentale ed internazionale.
Tradizionalisti, conservatori, a tratti reazionari ma non (più) fascisti. Semmai ‘nuova destra’, senza le ambizioni della Nouvelle Droite dei cervellotici Alain de Benoist, visti come area al medesimo tempo intellettualistica ed impolitica.
Non è un caso, al riguardo, se oramai da diverso tempo una parte dell’elettorato che fu comunista, ovvero le famiglie e gli elettori che si collocavano in questa area poiché nutrivano un culto per l’idea dell’autorità come autoritarismo (fenomeno molto diffuso nel caso del voto popolare al vecchio Pcf e nell’osservanza filosovietica, laddove si idealizzava il paese di Soviet come il paese dell’’autorità’), abbiano in parte optato per il partito dei Le Pen. La linea di continuità, in questo caso, è dettata da quel mix tra ‘protezione’ (pensiamo a te, ai tuoi interessi, alla tua rappresentanza che invece i ‘liberali’, tra i quali anche i socialisti, non intendono tutelare) e, per l’appunto, autoritarismo (inteso come restaurazione della prevedibilità dei ruoli, sistema gerarchico basato sull’’ognuno al suo posto’).
Un ulteriore aspetto della proposta lepenista è quella di dare voce (e megafono) alla protesta. In questo Marine Le Pen si presenta abilmente come colei che raccoglie il disagio, dandone una forma che, altrimenti, qualora fosse lasciato a se stesso, risulterebbe scomposto e, soprattutto, anarchico. Di sé, del suo populismo, del suo partito dice che è già potere costituente, dinanzi all’inerzialità dei poteri costituiti, rappresentata dal duo Hollande-Sarkozy.
All’orizzonte di questi fermenti, non va dimenticato, ci sono le trasformazioni che stanno coinvolgendo due altri paesi europei, l’Ungheria e la Polonia, dove forze iperconservatrici sono al governo, nel primo caso con un buon grado di consolidamento. In realtà non esistono oggi le condizioni per pensare che da ciò derivi una sorta di saldatura. Non siamo di fronte ad una sorta di ‘internazionale nera’, come poteva invece avvenire a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta con i regimi spagnolo, portoghese e greco. Lo scenario, anche da questo punto di vista, è mutato. Non c’è un fascismo risorgente bensì un’estensione sistematica dell’area populista, a destra come anche a sinistra, che occupa spazi lasciati vuoti dalle altre forze politiche, in chiara crisi di ruolo e funzioni. Alla ristrutturazione sociale ed economica si accompagna quella politica, in buona sostanza. Il populismo sostituisce una politica ridotta a tecnica imbelle, proclami enfatici ma poco o nulla credibili, ‘storytelling, ossia creazione di narrazioni. Il populismo ‘finge’ che si possa tornare alla centralità dello Stato, nel momento in cui le sue prerogative ne sono messe in discussione.
I tre campi d’azione del nuovo lepenismo sono infatti le politiche securitarie, il sovranismo e l’identitarismo. Interagiscono tra di loro. Le politiche securitarie spostano l’asse dell’attenzione dai diritti di integrazione e dalle politiche sociali di redistribuzione della ricchezza (queste ultime, in realtà, il vero tasto dolente che motiva il voto di ‘protesta’ a favore del Fronte) alla priorità di una risposta energica, affidata in genere agli apparati specializzati, quelli di polizia, contro la minaccia terroristica.
A conti fatti una cosa non escluderebbe l’altra ma di fatto le due traiettorie vengono oramai deliberatamente disgiunte. Il sovranismo, invece, è la nuova veste assunta dalle oramai sbiadite bandiere del nazionalismo repubblicano. È una reazione al cosmopolitismo delle élite liberali, richiamando il bisogno di ‘tornare sul territorio’, al governo degli spazi pubblici, di contro all’espropriazione che un’immigrazione incontrollata e gli interessi della finanza (quest’ultima vera cittadina del mondo poiché senza volto né nazione) starebbero ottenendo.
L’astuzia politica, infatti, sta nel coniugare la protesta contro il ‘basso’ (le nuove leve dell’immigrazione così come i marginali) con quella contro l’’alto’ (le leadership finanziarie ed economiche, che si avvantaggerebbero dall’avere abbandonato al loro destino il ‘popolo’). L’identitarismo, infine, è il dire che la “Francia deve tornare ai francesi”, quand’anche non si sappia bene chi siano per davvero i secondi. La mixité è aborrita, proprio perché costituisce il dispositivo che invece opera nei fatti. Il partito dei Le Pen si propone come quello che saprà, qualora dovesse rivestire i panni del governo, dividere e scegliere tra chi ha il diritto a sentirsi francese e chi, invece, è un abusivo. In questo, il suo programma politico non va sottovalutato poiché propone una radicale revisione della cittadinanza, intesa non solo come qualità giuridica ma come diritto, in senso lato, di sentirsi parte a pieno titolo di una collettività di eguali. E proprio per questo il Fronte ha qualche carta in mano, giocando sul disagio delle maggioranze dinanzi ai fenomeni di scardinamento delle sovranità nazionali prodotti dai processi di globalizzazione. A ciò va infine aggiunto il radicamento del Fn in alcune amministrazioni comunali e dipartimentali, dove oramai esiste un ceto politico diffuso, con un suo seguito elettorale e una credibilità che gli deriva dall’essere parte dei meccanismi di potere locale. Con questa ramificazioni i conti vanno fatti, non trattandosi di un’episodicità o di una sporadicità bensì di un fenomeno di lungo periodo.
Claudio Vercelli
(13 dicembre 2015)