lavoro…

Quando i figli di Israele scendono in Egitto, Giuseppe raccomanda ai suoi fratelli: “Quando il Faraone vi chiamerà e vi domanderà: ‘Qual è la vostra occupazione?’, risponderete: ‘Uomini di gregge sono stati i tuoi servi dalla nostra gioventù fino ad ora’” (Bereshìt, 46; 33-34). Il Rabbì Izchak Aramà spiega questo verso in questo modo: “Ha scelto per loro la cosa buona e retta e ha reso loro odioso il potere, giacché non c’è dubbio che se avesse voluto li avrebbe nominati capi di migliaia e capi di centinaia sul regno, ma ha voluto che dicessero che essi sono pastori di gregge dalla loro infanzia, sia essi che i loro padri”.
Giuseppe si preoccupa subito del luogo di residenza dei propri fratelli e per giustificare la loro presenza lontano dai centri del potere ricorda il loro lavoro affinché possano vivere in Egitto mantenendo un comportamento ebraico. Giuseppe avrebbe potuto mettere i propri fratelli in politica con ovvi vantaggi contingenti per tutti ma si preoccupa, invece, che vivano vicino al nucleo della comunità e che si occupino di una professione che permetta loro una vita ebraica.
Giuseppe vuole insegnare ai propri fratelli, alla vigilia di una schiavitù che farà del lavoro il simbolo dell’oppressione, che è possibile occuparsi ebraicamente del lavoro. Che il lavoro non è male in se, è male, viceversa, la parte di potere che è nel lavoro. È un richiamo alla sostanza e un ripudio dell’apparenza. Si deve amare il lavoro, non il biglietto da visita. Meglio essere un pastore realizzato e onesto che un ministro frustrato e corrotto.

Roberto Della Rocca, rabbino

(15 dicembre 2015)